Nel 4° numero di aprile della rivista “L’Enologo”, lo stimato e caro amico Cesare Intrieri ha esposto con squisita e puntuale precisione quasi tutti i temi che riguardano la straordinaria opportunità che sta vivendo la viticoltura italiana. Nell’ultima decina di anni si è visto un crescendo di registrazioni di varietà resistenti sia straniere sia realizzate in Italia. L’ultimo anno altre 10 varietà si sono aggiunte, tra queste le prime di San Michele all’Adige, con incroci che non sono figli di vitigni internazionali bensì autoctoni, tipici della regione Trentina. Tutto ciò rappresenta la punta di un iceberg; altre iniziative importanti stanno procedendo con un crescente interesse del mondo produttivo e l'ottenimento di questa numerosa ed interessante quantità di materiale innovativo, oltre che resistente, non potrà che far bene alla viticoltura nazionale, aprendo ad opportunità fino ad oggi impensabili. Innanzi tutto, è pian piano scemato l’ostracismo parzialmente giustificato dai fallimenti del secolo scorso. Molti esperti del settore, a partire dall’autorevole amico e collega che ha stimolato questo mio scritto, hanno oramai accolto questa attività come una grande opportunità. Mi permetto però di andare un pochino oltre, approfittando proprio di questo avvicinamento tra diverse opinioni oramai separate solo da dei distinguo veramente sottili, tuttavia a mio parere determinanti per il successo o il fallimento di queste nuove varietà. La critica che permane è soprattutto dovuta alla presenza di DNA di specie selvatiche donatrici delle resistenze, e, soprattutto, quanto ancora può pesare sulla qualità del prodotto. Qui però viene in aiuto la scienza, e la tecnologia di oggi, che con la metabolomica può identificare un rilevante numero di metaboliti determinanti la qualità ed i profili dei nuovi vitigni resistenti. L’opportunità offerta dai vitigni resistenti “moderni” è fortemente legata a queste nuove competenze che molto possono aiutare nel definire la qualità, oltre che se buona o cattiva, anche quanto simile e quanto divergente dai due genitori di partenza.
Questa breve premessa per arrivare a chiedersi quanto espresso nel titolo, che vuole andare oltre “all’ancor timido” sostegno che traspare nelle parole del collega. Siamo tutti d’accordo che nuovi vitigni resistenti costituiscano una valida alternativa, anzi forse l’unica alternativa in certi ambienti non adatti al biologico, e considerarli una opportunità è un passo avanti importante. Ma a mio parere il mondo scientifico ha delle responsabilità maggiori e soprattutto decisive in questo contesto. Due sono senz’altro i nostri doveri di scienziati; uno è di tipo enologico, ovvero affinare le competenze di vinificazione di questi prodotti, mentre il secondo è più “filosofico” in un certo senso: siccome le competenze scientifiche possono fare la differenza nel successo o nel fallimento di queste varietà resistenti di nuova generazione, non possiamo avere un ruolo asettico e equidistante, bensì esprimere in modo convincente e responsabile che questa è la strada.
Ad oggi queste varietà resistenti possono con una certa facilità essere utilizzate per vino da tavola. Nelle IGT di alcune regioni possono entrare, ma solo dopo le autorizzazioni delle denominazioni, e solo entro certe percentuali. Anche la proposta di costituire delle IGT dedicate può aiutare a lanciare il loro utilizzo, ma il vero successo ovvero un’autentica possibilità di non ritrovarsi a fine stagione con il prodotto invenduto è rappresentato dall’ingresso nelle Denominazioni di Origine, DOC e DOCG. Ad oggi ne è vietato l’uso, tuttavia le possibili chiavi di successo dei vitigni resistenti passano per questa via obbligata, e molto dipende dalla qualità e dal nome.
Della qualità abbiamo detto; i difetti che possono essere contenuti nelle piante figlie possono essere preventivamente valutati e precocemente scartati. I profili più simili alla varietà nobile, qualitativamente determinante per la Denominazione devono essere preservati. Ciò apre però a due argomenti di discussione la cui chiarezza è indispensabile. Il primo legato al riconoscimento di unicità delle piante ottenute da incrocio. Se troppo simili alla varietà nobile possono avere problemi di unicità e quindi di registrazione a Catalogo Nazionale. Ma qui si deve imporre la comunità: un carattere estremamente distintivo sarà sicuramente presente rispetto al genitore nobile, un carattere misurabile e quantificabile, cioè la resistenza ai patogeni che la varietà nobile non ha. E questo è un carattere determinante. Il secondo argomento è più delicato ma aiuta a risolvere un annoso problema. Si può usare o no il nome della varietà nobile nel nome della varietà ottenuta da incrocio? Qui il profilo metabolico simile alla varietà nobile viene in aiuto. Se sarà molto simile alla varietà nobile, direi che DEVE essere usato un nome che ricorda l’appartenenza ad un pedigree; ne può essere la chiave di successo o causa di fallimento. Se il profilo sarà diverso, anche molto, ma buono, allora meglio che abbia un nome diverso, una sua identità. A che serve in tal caso associare un nome ad un profilo qualitativo che nulla ha a che fare con una nuova varietà resistente se molto distante dal genitore nobile, anzi sarebbe per essa stessa deleterio, non avrebbe un suo spazio, una sua dignità. La metabolomica ci potrà aiutare a stabilire le soglie dei metaboliti determinanti un profilo “tipico” del genitore nobile per proporre la presenza di una aggettivazione di pedigree. Sotto soglia, meglio un nome diverso. Profilo molto similare, allora aggettivazione promossa.
Un commento a parte per le nuove biotecnologie, che proprio la scorsa settimana sono state oggetto di una giusta apertura da parte della Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo. Le così dette TEA, ovvero tecniche di evoluzione assistita, rappresentano una opportunità ottima, ma diversa, nei contenuti e negli obiettivi, dal miglioramento genetico. Le TEA danno la possibilità di indurre e seguire mutazioni, e quindi cloni, di varietà esistenti. Il miglioramento genetico descritto sopra fornisce nuove varietà simili ma non identiche ai genitori, consentono di esplorare la biodiversità potenziale del genere Vitis. Le TEA invece producono cloni; nel caso di mutazioni su geni responsabili di resistenze alle malattie, danno cloni della varietà mutagenizzata, ma pur sempre cloni: il Cabernet resta Cabernet, lo Chardonnay resta Chardonnay, il Sangiovese resta Sangiovese. In questo caso non si pone il problema dei nomi, saranno cloni con le loro sigle, cloni nuovi che pian piano sostituiranno quelli vecchi, così come è sempre stato nella selezione clonale. Si tratta, pertanto di una selezione clonale solamente accelerata. I tempi sono ancora incerti, i passaggi tecnologici complessi, ma sappiamo che sono possibili. Oggi dare un tempo certo in assoluto non è facile, ma è facile prevedere, sulla base dell'uso delle colture in vitro e della mutagenesi indotta, già dimostrate fattibili anche in vite, che presto avremo i primi risultati tangibili.
* Direttore del Centro di Ricerca in Viticoltura ed Enologia del CREA