In una tomba egiziana di circa quattromila anni fa vi è un’immagine che gli egittologi interpretano come la pasta sia prodotta impastando la farina con i piedi. Circa millecinquecento anni dopo gli Egiziani “lavorano la pasta con i piedi, l’argilla con le mani” afferma lo storico greco Erodoto (484 a. C. – 420 circa a. C.) nelle sue Storie (II, 36) che raccolgono digressioni su costumi dei popoli molto interessanti da un punto di vista antropologico e tra queste quella sull’Egitto a lui contemporaneo che per estensione e quantità di dettagli costituisce quasi un libro a parte. La consuetudine egiziana di lavorare la pasta di farina con i piedi è molto antica e presente nell’Egitto del Medio Regno (2055 a. C. – 1790 a. C.) come dimostra una delle immagini che decorano la tomba di Antefoker visir durante il regno del re Amenemhat I e del suo successore Sesostri I della XII dinastia, che organizza una spedizione verso il Paese di Punt e che ha un concreto ruolo nelle campagne militari di riconquista della Nubia (Davies N., Gardiner A. H. – The Tomb of Antefoker – Egypt Exploration Society, London, G. Allen and Unwi, 1929). Nella immagine della tomba si vede la lavorazione della pasta e, accanto a chi la tratta con le mani, vi è chi la lavora in piedi dentro un grande orcio, un procedimento che gli archeologi ritengono tipico delle grandi case e non delle piccole famiglie. Questo tipo di lavorazione dura anche in seguito, come conferma all’inizio della nostra era da Strabone (60 a. C. – 21-24 d. C.), e in Italia Meridionale arriva fin quasi ai giorni nostri.
Mentre in tutta Italia la pasta è lavorata a mano su madie di legno, a Napoli per fare la pasta e amalgamare l’acqua con la semola si usa la forza dei piedi e del peso del corpo e solo in rari casi i piedi sono separati dall’impasto con un telo e si narra che il re Ferdinando II delle Due Sicilie, visitando un pastificio scopre che il metodo di lavorazione della pasta comprende l’uso dei piedi e, ritenendolo poco igienico, commissiona all’ingegnere Cesare Spadaccini un progetto sostitutivo. Per questo Spadaccini realizza “l’uomo di bronzo”, la prima impastatrice manuale con pale di bronzo, documentando la sua opera con una pubblicazione dedicata “agli uomini ed alle dame di senno” (Novello e grande stabilimento di paste coll’Uomo di Bronzo per togliere l’uso abominevole d’impastare coi piedi costruito da Cesare Spadaccini nella sua proprietà Strada Campo di Marte in Napoli – Stabilimento Tipografico dell’Aquila, Napoli, 1833).
L’abitudine di lavorare la pasta con i piedi che si mantiene per circa quattromila anni, almeno per quanto possiamo sapere, riguarda l’Egitto e l’Italia Meridionale e comprende l’area dell’antichissima diffusione di un cereale, il grano duro (Triticum durum), dal quale ancora oggi si ottiene la pasta secca di migliore qualità. Dalla macinazione di questo cereale, soprattutto se eseguita con in primitivi sistemi di macine di pietra manuali, si ottiene uno sfarinato conosciuto con il nome di semola e costituito da granuli grossi di colore giallo-ambrato che, per essere impastati con acqua, hanno bisogno di una lunga lavorazione durante la quale esercitare molta forza e da qui l’uso dei piedi, che saranno poi sostituiti anche da un bastone nella gramola a stanga. L’impasto che si ottiene dalla semola di grano duro presenta un’estensibilità minore rispetto a un impasto ottenuto con una farina di grano tenero, ma possiede un’elevata tenacità, il che lo rende ottimo per la panificazione ma soprattutto per la produzione di pasta da essiccare.
Quale pasta impastavano con i piedi gli egiziani? Uno studio più dettagliato dell’immagine della tomba di Antefoker mostra quattro tipi di lavorazione, due su un piano con la produzione di quello che possono apparire pani, e due in orci: in quello più piccolo la lavorazione avviene con le mani e in quello più grande con i piedi. Con la stessa farina si ottengono quindi diverse forme di pane e di pasta? Nell’orcio più piccolo e con una leggera lavorazione a mano si producono granuli di pasta simili a quelli ancora oggi usati per essere cotti per il cous cous? Ma nell’orcio più grande e con una lavorazione pesante quale pasta si ottiene? Facile è l’ipotesi di una pasta molto dura tagliata in strisce da essiccare al sole per una successiva cottura anche in viaggio, come cibo di spedizioni di esplorazione e militari come quelle di Antefoker.
Non completamente fantasiosa è l’ipotesi di un’antichissima pasta di grano duro tagliata a strisce più o meno sottili perché circa tremila anni dopo, nel Libro per chi si diletta di girare il mondo, scritto in Sicilia dal geografo arabo Al Idrisi per Ruggero II di Sicilia (1154), si legge che “A ponente di Termini vi è un abitato che si chiama Trabìa, incantevole soggiorno con acque perenni e parecchi mulini. Trabìa ha una pianura e vasti poderi, nei quali si fabbricano tanti vermicelli (itriyah) da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono moltissimi carichi per nave”. È questa la prima testimonianza scritta sulla pasta essiccata anche se manca una descrizione del metodo di produzione. Non bisogna però dimenticare che nel Medioevo la pasta secca è genericamente definita con il termine di maccheroni e nel siciliano maccarruni deriverebbe da maccari, ossia schiacciare, una forte azione fatta lavorando la pasta di semola di grano duro.
Tutto quanto detto, tra documenti certi e ipotesi interpretative, si deve escludere l’idea fantasiosa che la pasta secca sia importata in Italia nel 1295 da Marco Polo al ritorno dalla Cina, e si può avvalorare l’ipotesi che sia un’invenzione egiziana come cibo da usare durante in viaggi d’esplorazione e spedizioni militari e, nonostante la sua lavorazione con i piedi, potrebbe essere definita Pasta dei Faraoni.