Nel complesso agroecosistema oliveto, oltre alle “nuove” patologie fungine descritte negli ultimi anni (Phytophthora, Botryosphaeria e Neofusicoccum, Neofabraea, Colletotrichum spp., ecc.), tornano a causare ingenti danni alcune micosi considerate, generalmente, patologie di minore importanza per la coltura.
Fra queste è da segnalare il fungo responsabile della cercosporiosi (Pseudocercospora cladosporioides (Sacc.) U. Braun), conosciuto anche come “Piombatura” dell’olivo.
Il fungo è stato segnalato per la prima volta, nel 1880, da Saccardo. Identificato da Gonzalez Fragoso, nel 1925 in Sanlùcar la Mayor, è stato riconosciuto come patologia dell’olivo nel 1941 in California e nel 1952 in Italia dal Pettinari, che ne segnalava la presenza in tutte le zone olivicole italiane e, in particolare, in Puglia (Salento) (Avila et Trapero, 2010).
Presenta un’elevata specializzazione patogenetica, attaccando unicamente Olea europaea L., anche se in America del Nord P. cladosporioides è stato riportato come possibile responsabile di tacche fogliari su Prunus laurocerasus (dati non confermati).
La principale conseguenza della malattia è la caduta anticipata delle foglie infette, con debilitazione generale della pianta e ripercussioni negative sulla produzione e sulla capacità di resistere ad attacchi biotici ed abiotici. I frutti attaccati possono cadere e l’olio che se ne ricava può presentare elevati livelli di perossidi. Gli studi effettuati hanno accertato che le precoci filloptosi possono determinare perdite anche del 20% sulla produzione dell’anno successivo. La sensibilità varietale è notevolmente ampia.
La malattia viene troppo spesso confusa con altre patologie dell’olivo: cicloconio, Colletotrichum, Neofabraea, ecc. Questo, abbinato anche all’impostazione tradizionale della difesa, che vede far coincidere i trattamenti contro l’occhio di pavone con quelli per la cercosporiosi, ha contribuito, negli ultimi anni, alla difficile gestione e alla conseguente diffusione della problematica fitopatologica in tutti gli oliveti della Penisola.
Sulla faccia superiore della foglia si formano zone clorotiche, irregolari, che, col tempo, divengono di colore marrone-necrotico; nella porzione inferiore sono evidenti aree di colore grigio-piombo per la presenza di strutture fruttifere asessuali del fungo (Trapero et Blanco, 2004). I sintomi più evidenti si hanno sulle foglie vecchie situate sui rami della parte inferiore della pianta, anche se frequenti sono le infezioni di quelle più giovani (4-5 mesi).
La malattia è particolarmente grave negli impianti fitti, vigorosi e scarsamente areati. Il patogeno si sviluppa maggiormente nei mesi con temperature comprese fra 10° e 20°C e con umidità elevata (>80%), condizioni tipiche dell’autunno-fine inverno (Ávila et al., 2004). La produzione di conidi si ha principalmente tra i mesi di ottobre e marzo. La dispersione del patogeno si verifica a breve distanza, da foglia a foglia, sebbene sia favorita dal vento e dalla pioggia (Junta de Andalucía, 2010). Le foglie cadute a terra sembrano avere un ruolo fondamentale per la sopravvivenza del fungo, potendo costituire una importante fonte di inoculo (Trapero et al., 2009). Il periodo di incubazione (tempo intercorrente fra l’infezione e la manifestazione dei sintomi) può superare anche i 9 mesi (Trapero et al., 2011).
La difesa è stata da sempre incentrata su trattamenti rameici coincidenti con quelli contro l’occhio di pavone, con risultati non sempre risolutivi sulla malattia. Studi effettuati da diversi ricercatori (F. Nigro et. al., 2000; Joaquin R. et. al., 2020) hanno evidenziato rinnovati aspetti bioecologici del patogeno, con la proposta di una nuova sequenza temporale degli interventi fitosanitari. Per le cultivar suscettibili sembrano efficaci una successione di 4 trattamenti in febbraio, aprile, fine agosto e fine settembre/ottobre, quando le infezioni aumentano a causa della sporulazione derivante dalle infezioni residue. Esperienze effettuate in Abruzzo nel biennio 2019-2020 sembrano dare conferma a questi dati.
Fra le sostanze attive più efficaci, oltre il rame, sono state riportate alcune strobilurine, triazoli e dodina. Interessante citare un lavoro (Maria del Carmen Casado Muñoz et al.2017-XVIII Simposio Científico Técnico Expoliva Jaén) che ha testato l’applicazione di un fertilizzante minerale a base di potassio (ossido di potassio 18%) con discreti risultati.
In definitiva, la difesa alla cercosporiosi dovrà essere migliorata ed incentrata su una corretta individuazione dei sintomi, una gestione agronomica sostenibile dell’oliveto e su interventi fitoiatrici ben calibrati nelle epoche di applicazione.
(Foto di V. Sergeva)