I vitigni da vino “resistenti” di ultima generazione, ottenuti da incroci tra viti europee e viti americane ed asiatiche, sono un grande successo della moderna ricerca genetica, e nel periodo 2019-2020 sono state prodotte in Italia circa 2,5 milioni di barbatelle innestate con tali vitigni (dati Mipaaf e Crea-VE). Nelle regioni in cui sono ammesse alla coltura (Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Province autonome di Trento e Bolzano, Emilia-Romagna, Abruzzo), le barbatelle innestate nell’ultima campagna vivaistica potrebbero teoricamente dare origine ad oltre 600 ettari di vigneto, che potrebbero aggiungersi ai circa 250 ettari che si stima siano attualmente impiantati con le varietà resistenti.
Nonostante questi lusinghieri risultati, è chiaro che i nuovi vigneti rappresentano ancora una quota irrisoria della superficie italiana investita ad uva da vino, che ammonta a circa 650.000 ettari (dati ISTAT, 2020). E’ però evidente che il settore sta entrando in una nuova era, che si configura come la fase iniziale di una “viticoltura resistente”, che si innesta su quella che ancora oggi può definirsi “viticoltura post-fillosserica”.
In realtà, infatti, più di venti accessioni di uve da vino con caratteri di resistenza sono state iscritte al nostro registro varietale a partire dagli anni 2000, e la maggior parte di esse deriva dall’incrocio tra vitigni francesi di importanza internazionale (Cabernet, Merlot, Pinot, Sauvignon, ecc.) e varietà ibride di genealogia complessa ed eterogenea (Kozma, Merzling, Bianca, ecc.). Le nuove accessioni sono state ottenute da varie istituzioni scientifiche in Italia, in Germania, in Ungheria e in altri paesi del centro-nord Europa e la loro iscrizione al registro varietale italiano si accorda perfettamente con l’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica, che oggi considera la viticoltura come una delle attività agricole a più alto impatto ambientale.
L’inserimento dei vitigni resistenti nel settore viti-enologico italiano è infatti sicuramente un fatto positivo, ma si presta comunque ad effettuare alcune considerazioni, che riguardano le modalità e i tempi della diffusione delle diverse varietà e la loro possibilità di coesistenza con l’assetto conservatore della viticoltura tradizionale e con quello della viticoltura del futuro.
Per quanto concerne la possibilità di diffusione delle varietà resistenti nel nostro paese, questa è regolata dalle norme del D. L. 61/2010 e dalla legge 238/2016, che stabiliscono il divieto di utilizzare gli incroci tra la Vitis vinifera e altre specie del genere Vitis per la produzione di vini Doc e Docg. Le varietà resistenti, che sono interspecifiche, possono quindi essere utilizzate solo per i vini da tavola e per quelli a denominazione geografica tipica (Igt).
Analizzando le leggi che regolano la materia, si può tuttavia osservare che le direttive italiane sono molto più rigide di quelle di altre nazioni del centro-nord Europa (ad es. Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e perfino Francia), le cui norme possono consentire alle varietà interspecifiche di concorrere in quote definite anche alla produzione di vini a denominazione di origine. Soprattutto in Germania la legislazione sull’uso enologico delle nuove accessioni è molto permissiva, poiché consente di classificare come Vitis vinifera i migliori vitigni resistenti, che possono quindi essere utilizzati nelle Doc senza alcuna limitazione.
Per sostenere tale posizione i ricercatori tedeschi si richiamano al fatto che le più recenti tecnologie di miglioramento genetico includono il re-incrocio ripetuto dell’ibrido complesso, donatore di resistenza, con la varietà europea utilizzata come parentale. Ad ogni re-incrocio aumenta la percentuale di DNA di vinifera della progenie, e dopo 5-6 generazioni le accessioni possono presentare più del 90% di DNA del genitore europeo. Il punto di vista tedesco non è però accettabile sotto il profilo scientifico, poiché una varietà da incrocio tra la Vitis vinifera ed altre specie, anche se caratterizzata da oltre il 90% di DNA europeo, non può essere considerata una vinifera “pura”.
Sulla possibilità di classificare come Vitis vinifera i vitigni resistenti con prevalente DNA europeo vi sono comunque opinioni controverse anche in Italia, dove si sta manifestando una corrente di pensiero analoga a quella tedesca, che permetterebbe di “aggirare” i divieti legislativi sull’impiego dei vitigni interspecifici. Tale ipotesi, al pari di quella tedesca, non è però accettabile sotto il profilo scientifico, mentre invece potrebbe essere utile “integrare” la nostra legislazione con opportune deroghe, che in situazioni particolari potrebbero consentire “ufficialmente” alle migliori accessioni resistenti di essere vinificate anche nelle Doc e Docg.
Quale che sia la loro destinazione enologica, è certo che i vitigni resistenti di ultima generazione, anche se talora soggetti ad alcune critiche, rappresentano una concreta possibilità per rendere più sostenibile la viticoltura italiana, e continueranno a diffondersi allo scopo di limitare la quantità dei fitofarmaci utilizzati nella coltivazione della Vitis vinifera. Sotto tale profilo, i vantaggi di utilizzare i vitigni interspecifici per ridurre l’inquinamento ambientale sono infatti ampiamente riconosciuti, e le varietà iscritte al nostro registro con nomi di fantasia (come ad es. Bronner, Fleurtai, Joanniter, Julius, Muscaris, Prior, Regent, Solaris ed altri) non si prestano a particolari contestazioni.
Per altre varietà resistenti, iscritte al registro varietale con i nomi aggettivati dei genitori “nobili” europei, sono invece state sollevate non poche critiche, poiché i pareri sono discordi sulla possibilità di battezzare un vitigno derivato dall’incrocio tra specie diverse con il nome del parentale più “famoso”. Il settore vivaistico è ovviamente favorevole all’attribuzione ai nuovi vitigni di un nome conosciuto, perché ciò favorisce il successo commerciale delle varietà resistenti, ma altre componenti della filiera tecnico-produttiva sono contrarie, per il pericolo di creare confusione ed illudere i viticoltori che tali varietà siano identiche a quelle “originali” per tutte le altre caratteristiche.
Le opinioni sulle denominazioni dei vitigni interspecifici sono quindi molteplici, e la questione sta suscitando notevoli discussioni anche in altri paesi della UE e soprattutto in Francia, poiché molti vitigni resistenti, ottenuti in Germania, in Italia e in Ungheria, sono stati registrati con i nomi aggettivati delle varietà francesi da cui derivano (ad es. Cabernet Cortis, Merlot Kanthus, Pinot Regina, Sauvignon Kretos, ecc.), e ciò “disturba” l’immagine “tradizionale” della viticoltura d’oltralpe. Prova ne sia che l’OIV (Organisation International de la Vigne et du Vin) ha approvato nel 2019 una risoluzione contraria all’utilizzo dei nomi di varietà già esistenti per i vitigni di nuova costituzione.
Al principio di non usare nomi di varietà esistenti per le nuove costituzioni si è attenuta in Italia la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (FEM), che nell’ottobre 2020 ha iscritto al registro nazionale con nomi di fantasia quattro nuove varietà resistenti (Nermantis N, Termantis N, Charvir B e Valnosia B), derivanti da incroci tra alcuni ibridi complessi (Merzling, Bianca, ecc.) e le varietà trentine Teroldego e Nosiola. Altri centri di ricerca italiani sono invece favorevoli alla assegnazione dei nomi aggettivati di varietà europee ai vitigni interspecifici, ma ritengono che ciò sia fattibile solo se esistono precise condizioni di base, tra cui la certezza che le caratteristiche agronomiche e tecnologiche della varietà “resistente” siano riconducibili in modo oggettivo al vitigno di Vitis vinifera riportato nella denominazione, e che la richiesta per la messa in coltura della nuova accessione sia fatta per le medesime aree di coltivazione previste per il vitigno di cui è stato usato il nome.
In ultima analisi, anche le correnti di opinione favorevoli all’utilizzo dei nomi di varietà conosciute per i vitigni resistenti mettono alcuni “paletti” alla loro iscrizione al registro varietale e propongono che l’accesso al registro sia subordinato all’accertamento di una “soglia di corrispondenza” (agronomica, enologica, chimica, organolettica, ecc.), al di sotto della quale non sarebbe legittimo utilizzare il nome del parentale. La soglia di corrispondenza dovrebbe essere certificata “a priori”, non solo su dati di campagna, ma anche in base al profilo dei metaboliti primari e secondari dell’uva del genitore europeo rispetto al vitigno resistente.
Queste ultime proposte sono molto corrette e certamente condivisibili, e avrebbero dovuto essere applicate anche nel passato, ma almeno per il futuro è auspicabile che il nostro Ministero ne tenga debito conto, varando in tempi brevi norme di questo tipo per guidare il processo di diffusione dei vitigni resistenti. In realtà, infatti, oggi è ancora piuttosto facile iscrivere al registro i vitigni interspecifici con i nomi aggettivati di note cultivar di Vitis vinifera, con i vantaggi, ma anche con i problemi che possono derivarne. In ogni caso, le esperienze più recenti hanno indicato che il successo delle varietà resistenti dipende non tanto dal nome, quanto dal loro valore agronomico ed enologico.
Considerando lo stato attuale della questione, si può osservare che tutti i vitigni interspecifici attualmente iscritti al registro varietale italiano hanno nomi di fantasia o i nomi aggettivati delle importanti varietà francesi già menzionate. E’ però opportuno ricordare che in diversi centri di ricerca nazionali (FEM, Crea-Ve, Università, Istituzioni private) sono in corso di selezione avanzata molte accessioni derivate dall’incrocio di ibridi complessi con alcune delle più note varietà del nostro paese (Glera, Friulano, Lambruschi, Trebbiani, Sangiovese, Montepulciano, Aglianico, Primitivo, Nero d’Avola, ecc.). Per queste nuove accessioni sarà forte la tentazione di battezzarle con i nomi aggettivati dei loro genitori “italici” e di richiederne con tali nomi l’ammissione in coltura.
Ciò premesso, è anche importante sapere che accanto al miglioramento genetico per incrocio, alcuni nostri laboratori stanno utilizzando da diversi anni le tecniche del “Genome Editing”, che permetteranno di indurre la resistenza alle malattie fungine nei vitigni europei senza modificarne le altre caratteristiche. Le viti mutate saranno “cloni” a tutti gli effetti e avranno il diritto di mantenere il nome della varietà. E’ pur vero che secondo la Corte di Giustizia Europea le piante ottenute con l’editing genomico sarebbero considerate OGM e quindi non coltivabili, ma è altrettanto vero che questa anacronistica posizione sta per essere superata ed è quasi certo che nel giro di quattro o cinque anni potrebbero essere disponibili ed utilizzabili per gli impianti i cloni resistenti di alcune varietà francesi o italiane di Vitis vinifera.
Si pone quindi una domanda: come potranno convivere in Italia i vitigni da incrocio che hanno i nomi aggettivati dei genitori europei con i “cloni” ottenuti con il Genome Editing? E’ altamente probabile che i viticoltori preferiscano gli “originali” alle “copie”, e che proprio i vitigni interspecifici col nome di una varietà perdano mercato e vengano sostituiti dai “cloni” resistenti della medesima varietà. Paradossalmente potrebbero mantenere il mercato solo le migliori accessioni interspecifiche omologate con nomi di fantasia, ma l’acquisizione di resistenza riporterà alla massima dignità i vitigni internazionali di Vitis vinifera e quelli “storici” italiani che hanno reso unica la nostra viti-enologia. Forse nei prossimi dieci anni il settore supererà la fase della “viticoltura resistente” e potrà entrare in quella che potrebbe essere chiamata “viticoltura post-fungina”.