L’oggetto d’analisi del mio intervento è il vasto regime dietetico-semiotico della merenda, ovvero quel momento di consumo del cibo che, in linea di massima, non rientra nei tempi canonici del pranzo e della cena, toccando in parte la prima colazione ma collocandosi più spesso, come momento a sé stante, in tempi diversi della giornata, soprattutto quando riguarda il mondo dell’infanzia. Occuparsi di merende e merendine può apparire curioso. Eppure la merenda è molto importante per il discorso socio-semiotico sul gusto e sul cibo, essendo qualcosa che è al tempo stesso superfluo ed essenziale, irrituale e necessario, dannoso e nutriente, trasgressivo e tradizionale, domestico e industriale, familiare e nomade. Nel passaggio dal sostantivo merenda al suo diminutivo grammaticale merendina, fra l’altro, sembra si compia un passaggio epocale che è forse antropologico, quello che dalla tradizione alimentare casalinga porta alla globalizzazione industriale e post-industriale, dalla natura alla cultura, dalla famiglia alla strada, dalla competenza gustativa all’ineducazione verso il piacere del cibo.
Lo storico Massimo Montanari ha sostenuto che nel passaggio dalla merenda alla merendina si perde del tutto il senso del rituale “che tradizionalmente scandisce la metà della mattina, e la metà del pomeriggio, meritato ristoro […] durante il lavoro o lo studio”. La merendina, simbolo dell’industria, è divenuta per Montanari letteralmente insignificante perché priva del suo contesto temporale (non più momento del riposo e ristoro), spaziale (non più in luoghi canonici come la casa o il giardino) e valoriale (non più premio da meritare ma oggetto dovuto). “L’idea di pausa – scrive lo storico – rimane, ma è una pausa che può arrivare in qualsiasi momento”, “allargandosi potenzialmente all’intera giornata”, con una refezione consumata dovunque, per qualsiasi ragione o senza alcun motivo predeterminato da una tradizione consolidata, di modo che “il cibo-oggetto ha preso il posto del cibo-evento”.
La pubblicità, strumento potente del marketing industriale delle merendine, dà al tempo stesso ragione e torto a Montanari, ponendosi i medesimi problemi e risolvendoli a modo suo, per gli scopi posti volta per volta dal discorso dei brand. Il problema della comunicazione di marca è quello di reinventare una tradizione, moltiplicandone gli aspetti e gli esiti. Ciascun brand ha lo scopo di reimpostare il contesto della merenda, i suoi tempi, i suoi spazi, i sistemi di valori soggiacenti.
Quel che è certo è che la merendina, nella cultura sociale contemporanea, è per nulla insignificante poiché priva di contesti d’uso e valori attinenti. Anzi, quel che la pubblicità ci rimanda è proprio lo sforzo di moltiplicare tali contesti d’uso, e dunque discorsi e racconti che risemantizzino più o meno fantasticamente la merenda, proponendone forme di consumo molto varie e molto ricche. Ciò, fra l’altro, fa facilmente presupporre un consumatore tutt’altro che inesperto, incapace di mangiare, di gustare o, addirittura, di vivere, come spesso si sente ripetere in tanti discorsi un po’ superficiali – qualcuno direbbe apocalittici – sui vissuti sociali dei nostri giorni. Sembrerebbe semmai proprio il contrario: data l’ipercompetenza del consumatore attuale, attentissimo a ogni sfumatura di senso riguardante le merendine, e dunque a ogni minima variazione riguardante sia gli aspetti estesici del prodotto (gusto) sia gli aspetti sociali della sua assunzione (rituali), la comunicazione di brand è come sottoposta a continui sforzi di ricostruzione dell’esperienza. Facendosi al tempo stesso invenzione della tradizione e invenzione del quotidiano.