Alla fine di un anno, spesso si tende per lo più a guardare avanti, con richieste, auguri e speranze in un futuro migliore, seguendo inconsapevolmente una sorta di rito tradizionale e scaramantico. E non c’è dubbio che il 2020 non appena concluso ci abbia offerto un ottimo motivo, stavolta razionalmente consapevole, per proseguire tale tradizione. Quando lo sguardo dovesse volgersi indietro, il 2020 è stato e sempre rimarrà nei vissuti della maggior parte delle persone come l’anno della pandemia COVID-19, causata dall’ormai conosciutissimo coronavirus SARS-CoV-2.
Anche a causa di questo evento pandemico, ma non solo, pochi tra i non addetti ai lavori hanno avuto l’opportunità di sapere che il 2020 era stato proclamato “Anno internazionale della salute delle piante” dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Solo pochissimi eventi tra quelli previsti ed organizzati hanno avuto regolare svolgimento, la maggior parte è stata condotta in remoto così come posticipata al 2021 od addirittura al 2022. Il 2020 doveva essere l’occasione per sensibilizzare a livello globale governi e singoli cittadini sul ruolo fondamentale che le piante da sempre giocano sui nostri destini, che va oltre l’indispensabile elemento del fornire cibo ed altre importanti materie prime, e che può essere anche motore di un modello innovativo e sostenibile di sviluppo economico. Ovvero il 2020 era l’occasione per la presa di coscienza a livello globale sul contributo che ognuno, anche come singoli individui, dovrebbe dare per preservare e garantire la salute delle piante e sul perché. Ma forse l’occasione non è persa. Anzi, riguardando con sguardo lucido gli eventi che hanno condotto alla pandemia COVID-19, i meccanismi biologici e le interazioni tra i suoi vari “attori”, dal virus agli ospiti ed i suoi serbatoi, per arrivare alle condizioni ambientali in senso lato nelle quali si è sviluppata, è addirittura possibile che possa avere reso governi e società civile più ricettivi a pochi semplici concetti e relazioni che sono comuni a tutte le epidemie, indipendentemente dall’ospite, sia questo umano, animale o vegetale. Non vi è dubbio che “prevenzione” sia tra questi, così come del fatto che la sfida imposta dal prevenire la diffusione di malattie infettive e lo scoppio di epidemie sia sempre più ardua. I cambiamenti globali ai quali abbiamo contribuito e che da qualche tempo stiamo vivendo, non solo quello climatico ma anche la globalizzazione dei commerci e l’estrema rapidità di movimento di umani e merci a livello mondiale, promuovono e favoriscono l’arrivo, lo stabilirsi e la ricomparsa di patogeni altrimenti non presenti in certe aree o che si credevano sconfitti. E questi sono i primi elementi essenziali ed ideali per l’innesco di un’epidemia, anche in ambito vegetale. Proprio per questo “prevenire” resta il primo obiettivo da perseguire, secondo varie modalità e con l’uso di vari strumenti, da quello legislativo alla sorveglianza ed al monitoraggio fino ad arrivare all’investimento condiviso in conoscenza e scienza, elemento che quasi sempre è però il più trascurato. Viceversa, in questo anno dedicato alla salute delle piante la pandemia COVID 19 ci ha mostrato che la possibilità di avere in tempi sorprendentemente brevi la disponibilità di vaccini si basa anche su conoscenze scientifiche di base e pregresse, acquisite prima che ve ne fosse l’urgente necessità, così come dello sforzo collettivo e sinergico che è stato fatto in tale senso. E’ essenziale quindi che anche nei settori scientifici che si occupano della difesa delle piante dalle malattie sempre più ci si occupi di ricerca, soprattutto di base, anche in assenza di epidemie, proprio per massimizzare la possibilità di prevenirle con successo o stroncarle nell’insorgere, con strategie efficaci, altamente tecnologiche e sostenibili. E sarebbe decisamente sbagliato immaginare che un’epidemia in ambito vegetale avrebbe un effetto meno dirompente di una occorsa sull’Uomo. Infatti, aldilà delle perdite dirette e immediate, un’epidemia è sempre un evento altamente destabilizzante sul sistema economico, sociale e politico di un Paese. Ad esempio, oltre al danno in termini di perdita del prodotto e sul sistema dell’approvvigionamento primario, anche in ambito vegetale i costi derivanti da un’epidemia sono strutturabili a diversi livelli. In termini economici, sono infatti da considerare quelli associati ai contributi compensativi da erogare agli addetti dei vari settori coinvolti, quelli derivanti dalla realizzazione e messa in atto di appropriate ed efficaci misure di contenimento e di eradicazione, fino ad arrivare ad eventuali costi derivanti da embarghi commerciali internazionali imposti dai Paesi importatori verso il Paese esportatore e vittima dello scoppio epidemico. Da questi costi economici derivano inevitabilmente quelli sociali, con perdita o riduzione di posti di lavoro e disagi sociali di vario ordine. Fino ad arrivare all’impatto sulla stabilità politica, correlato alla possibile strumentalizzazione da parte delle opposizioni ma anche per incrinature nella fiducia da parte della popolazione nella capacità del proprio governo di proteggere reddito e approvvigionamento primario.
In conclusione, se opportunamente riletto, il 2020 potrebbe quindi essere quello nel quale essenziale è stato il contributo dato da un patogeno umano verso la sensibilizzazione su motivazioni e obiettivi dell’Anno della Salute delle Piante, chissà.