Se è vero che l’abito non fa il monaco, è altrettanto vero che se incontro per strada qualcuno vestito da monaco penso che lo sia veramente. E sono portato a crederlo anche se sulla tonaca esibisce un cartellino con su scritto in piccolo “bada che non sono un monaco”. Su questo banale principio di saggezza comune si è basata la battaglia che l’associazione europea degli allevatori ha portato in Parlamento Europeo per la corretta etichettatura dei prodotti simil-carne a base vegetale. Il 23 ottobre scorso il supremo organo collegiale dell’Unione si è espresso con voto non vincolante sulla denominazione di carne e derivati (hamburger, salami, ecc..) di prodotti di origine vegetale. L’iniziativa è nata sulla scorta di una decisione della Corte di Giustizia Europea che nel giugno 2017, con sentenza sulla causa C-422/16, aveva rilevato che “i prodotti puramente vegetali non possono, in linea di principio, essere commercializzati con denominazioni, come «latte», «crema di latteo panna», «burro», «formaggio» e «yogurt», che il diritto dell’Unione (Regolamento UE n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli) riserva ai prodotti di origine animale. Ciò vale anche nel caso in cui tali denominazioni siano completate da indicazioni esplicative o descrittive che indicano l’origine vegetale del prodotto in questione, salvo le eccezioni espressamente previste”.
Gli emendamenti al Reg. 1308/2013 (https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:347:0671:0854:it:PDF ) sottoposti al vaglio del Consiglio erano tre: a) il 165, che prevedeva la prescrizione per cui i “nomi che rientrano nell'articolo 17 del Regolamento (UE) n. 1169/2011 e che sono attualmente utilizzati per prodotti con basi e preparazioni di carne sono riservati esclusivamente a prodotti contenenti carne, in particolare nel caso delle denominazioni bistecca, salsiccia, cotoletta, hamburger e burger”; b) il 264, che recitava “i nomi così come i termini e denominazioni di vendita relativi a carni che vengono utilizzati per denotare carni, tagli di carne e prodotti a base di carne secondo Articolo 17 del regolamento (UE) nº 1169/2011 sono riservati esclusivamente alle parti commestibili di animali e ai prodotti contenenti carne”; c) il 275, che proponeva la sostituzione integrale dell’art. 78 del reg. 1308/2013, introducendo il dettato per cui “oltre agli standard di marketing applicabili, se del caso, le definizioni tagli e tagli di vendita di cui all'allegato VII si applicano a settori o prodotti carne bovina, carni ovine, vino, latte e prodotti lattiero-caseari destinati al consumo umano, carne di pollame, uova, grassi da spalmare destinati consumo umano, olio d'oliva e olive da tavola, carne di maiale, carne di capra, carne di cavallo, carne di coniglio”.
Dopo due giorni di intensa discussione, i tre emendamenti sono stati respinti con le seguenti votazioni: 165, 379 contro / 284 a favore; 264, 399 contro / 243 a favore-; 275, 524 contro/110 a favore.
Risultato, le cose restano come sono e i singoli Paesi dell’Unione possono adottare normative più restrittive in materia, come è già accaduto in Spagna e in Francia per le etichettature dei cosiddetti "novel food" a base vegetale, molti dei quali assumono direttamente la denominazione di carne (con diversi attributi, fra i quali il più frequente è veg.) o indirettamente quella di prodotti trasformati derivati della carne.
Contro questa (poco salomonica) soluzione si sono schierate le associazioni degli agricoltori, degli allevatori e dei trasformatori nazionali ed europee, le quali hanno sempre sostenuto che denominare un alimento in modo differente dalla sua reale origine è ingannevole verso il consumatore il quale assume, di solito, un principio di equivalenza nutrizionale per prodotti che esibiscono la stessa denominazione. In Italia ASSOCARNI, per bocca del suo presidente Scordamaglia, ha definito il voto del 23 ottobre “Una non scelta che va innanzitutto contro i consumatori. Ma attenzione, non è un via libera all’uso sconsiderato delle denominazioni, resta sempre possibile ottenerne il divieto a livello nazionale, bypassando la perdurante paralisi decisionale a cui l’Europa ci ha abituati. Un fatto resta, la trasparenza è stata sacrificata a beneficio dell'interesse di poche multinazionali. Così facendo stiamo suggerendo che un preparato vegetale abbia lo stesso valore culturale e nutrizionale di una bistecca, di un hamburger o di una salsiccia, le etichette raccontano un'altra verità”.
Il parere dello scrivente, reso ai media in qualità di presidente dell’Associazione no-profit Carni Sostenibili, è che si è persa l’occasione di promuovere la trasparenza verso i consumatori in quanto le istanze di una etichettatura che garantisca una corretta informazione, anche a vantaggio dei prodotti di origine vegetale quali il vino e l’olio di oliva, è andata perduta. Nello specifico, non ha trovato una tutela chiara il grande patrimonio culturale e il know how di produzione che caratterizza l’intero settore delle carni. Nessun divieto a chi, per strizzare l’occhio a logiche di marketing, userà la parola “bistecca” per definire qualcosa che nella sua lista di ingredienti ha tutto (anche troppo) fuorché la carne. La partita comunque resta aperta, tutto torna nelle mani dei singoli Stati, e quindi dell’Italia che con decreti nazionali potrà continuare a portare avanti una battaglia che prima di tutto è a favore della scelta consapevole del consumatore.
In conclusione, parafrasando un proverbio della mia città, Sassari, che recita “Lu mattessi è cieggu a un occiu” (lo stesso, è cieco a un occhio), presentare ai cittadini un prodotto di origine vegetale con lo stesso nome di uno di origine animale (o viceversa) è come dire loro che sono la stessa cosa, ma non è (ovviamente) vero.