Nei giorni immediatamente precedenti la tornata elettorale del 20 e 21 settembre il Governo ha presentato alle Camere le “Linee guida per la definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (Pnrr). È il primo passo per dare avvio ai programmi di rilancio della nostra economia disastrata a causa del Covid 19. Il documento è stato relegato in secondo piano dalle polemiche post elettorali, ma merita attenzione.
Negli scorsi mesi ha prevalso l’obiettivo di contenere le conseguenze di una situazione economica sull’orlo del collasso. Gli interventi, pari a un centinaio di miliardi, sono stati utilizzati per sostenere il comparto sanitario, per aiutare le persone e le categorie più colpite e le attività bloccate dal lockdown. Non si è seguita una logica selettiva, ma quella di un intervento generalizzato. Ora, di fronte al compito immane della ricostruzione e dello stimolo alla resilienza del sistema servono priorità chiare, scelte vere, sostenute da un ingente sforzo finanziario che graverà sul futuro del Paese.
Il documento sulle linee guida costituisce la prima risposta ed era atteso con grande interesse. Altri paesi hanno già predisposto il proprio documento e la Commissione Europea negli stessi giorni ha reso note le sue indicazioni.
Il Pnrr è scarno e molto generale, 38 pagine a cui si sommano circa altrettante di diapositive (si veda: linee-guida-pnrr-2020.pdf). L’analogo piano francese, ad esempio, è di circa 300 pagine ed entra in elementi di dettaglio, mentre altri paesi europei affrontano la fase di scrittura in stretto contatto con gli organismi comunitari.
La struttura del testo è semplice, quasi scolastica, ma a queste caratteristiche non si accompagnano chiare indicazioni operative. L’impressione che ne deriva è che il “vero” contenuto debba ancora essere deciso. Le linee guida sono ovvie e riunite in categorie generiche su cui sarebbe difficile non convenire, come la “digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo” la “rivoluzione verde e transizione ecologica”, “le infrastrutture per la mobilità e così via sino alla “salute”. Ancora più ampia e generica è l’elencazione delle Politiche di supporto che vanno dagli Investimenti pubblici alla Riforma della Pubblica Amministrazione, dalla Ricerca e sviluppo alla Riforma del fisco, dalla Riforma della Giustizia alla Riforma del Lavoro. Se si aggiunge il non citato riassetto del sistema pensionistico saremmo di fronte ad una vera Riforma dello Stato, quella che da decenni non si riesce ad affrontare ed è la causa dei bassi tassi di crescita della nostra economia mentre sarebbe la base del successo del futuro Piano. Ma da sola richiederebbe uno specifico e gravoso impegno.
Il calcolo delle risorse si ferma ai 209 miliardi previsti dal Recovery Fund, (81,4 di sussidi e 127,4 di prestiti) e non tiene conto di altre come il fondo “Sure” per proseguire il sostegno al lavoro con 27 miliardi o il discusso “Mes sanitario” per altri 37 miliardi. Integrare questi fondi consentirebbe di liberare risorse del Recovery Fund da riservare agli interventi sul sistema economico. Risorse e modalità di copertura avrebbero dovuto essere indicate nella Nota aggiuntiva di Economia e Finanza (NaDef), la cui presentazione è stata rinviata e mentre scriviamo non è nota.
Gli interventi indicati sono tanto numerosi e articolati da condurre a un lungo elenco di progetti forzatamente di ridotta dimensione. Nei giorni precedenti era circolata (abusivamente secondo il Governo) una lista di circa 600 Progetti preselezionati dai Ministeri.
Il modo di procedere lascia perplessi. Di fronte all’immane compito di far ripartire l’economia della settima potenza economica ci si attende non una casistica minuziosa di azioni finanziabili, ma un grande disegno strategico di politica economica, una scelta coraggiosa e di portata nazionale in cui poi le singole iniziative legislative e imprenditoriali possano inserirsi.
I finanziamenti non devono provocare la presentazione di domande finalizzate alla fruizione dei fondi. La logica richiede l’opposto. Il Piano non può generare iniziative nate per adattarsi ad esso, senza un’autonoma vitalità, per acquisire finanziamenti che ne consentano una vita condizionata dall’erogazione.
Infine un tema su cui bisognerà tornare con fermezza. Il grande sforzo comunitario per la transizione energetica (almeno il 37% dei fondi del Recovery Fund) nel testo sembra non riguardare l’agricoltura, e tutto l’ agroalimentare sino alla ristorazione, a cui dedica in parte solo le ultime due righe. Il Sistema ha retto contribuendo con la Sanità a far proseguire la vita degli Italiani e può dare un contributo rilevante alla crescita del Pil anche in tempi brevi, ma richiede una specifica attenzione. Può continuare a farlo aprendo le porte all’apporto dei risultati della scienza, quella vera, agli investimenti ed alla libertà d’impresa. Ma temiamo che invece ritorneranno a galla le variegate voci della pseudo scienza e di un confuso ambientalismo anti produttivo.
Un’ultima osservazione: pur dicendo poco di concreto si respira in molti punti un’impostazione fortemente statalista che per sua natura non è quella più idonea a far ripartire l’economia. Sarebbe bene aprire una riflessione su come l’Italia sia uscita dai disastri della guerra, quella vera, ai tempi del miracolo economico per poi procedere.