Un’Italia le cui temperature estive al Sud sfioreranno costantemente i 40 gradi, dove per lunghi periodi il termometro non scenderà mai, neppure di notte, sotto i 20 gradi, con sequenze di giorni senza pioggia, tanto che la portata di fiumi e corsi d’acqua potrebbe ridursi del 40% e il rischio incendi aumentare del 20%.
Non è uno scenario fantascientifico di un futuro remoto, ma quello cui potrebbero trovarsi di fronte, entro fine secolo, i nostri figli e i nostri nipoti, quelli che oggi sono in prima elementare e che allora avranno poco più di ottant’anni.
È lo scenario previsto dai ricercatori del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc) che hanno presentato il rapporto Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia, il primo documento del genere per il nostro paese. A partire dai modelli matematici che permettono di simulare il clima del futuro, gli studiosi del Cmcc si sono concentrati sui singoli settori (costi economici, città, rischio idrogeologico, acqua, agricoltura, incendi) per fornire elementi scientifici a chi dovrà prendere decisioni fondamentali per i prossimi decenni.
«Le nostre simulazioni hanno preso in considerazione le due possibili situazioni estreme», spiega Donatella Spano, docente di Agrometeorologia all’Università di Sassari e coordinatrice dei trenta studiosi del Cmcc che hanno scritto il rapporto. «Il caso ottimistico, in cui saranno stati presi seri provvedimenti per il taglio delle emissioni di anidride carbonica, e quello pessimistico, senza alcuna mitigazione del fenomeno e con uno sviluppo economico analogo all’attuale».
È appunto questo lo scenario più drammatico, con una temperatura media per l’Italia che crescerebbe di 5 gradi entro il 2100 e un costo, in termini prettamente economici di 8 punti percentuali di Pil procapite. «È assolutamente necessario un modello di sviluppo diverso, anche perché continuando così ci saranno costi sociali elevatissimi che ricadranno sulle fasce più deboli», avverte la professoressa Spano.
«L’aumento della mortalità legato alle ondate di calore, agli incendi, alla peggiorata qualità dell’aria o persino alle inondazioni, finirebbe per colpire soprattutto chi vive in contesti con infrastrutture inadeguate, poveri di beni e servizi».
Si è spesso scritto degli effetti collaterali che il riscaldamento globale avrà nei diversi angoli del pianeta: dallo scioglimento dei ghiacci ai Poli, all’innalzamento dei mari che potrebbe inghiottire interi arcipelaghi, all’aumento di eventi atmosferici estremi sulle coste atlantiche degli Usa. È la prima volta però che una istituzione scientifica si concentra sul possibile rischio climatico specifico dell’Italia. «Purtroppo il Mediterraneo, per la sua geografia e la sua variabilità climatica, è considerata una zona critica, sulla quale il global warming potrebbe avere un impatto più forte che altrove», continua Spano. «Per questo è importante prepararsi a tale eventualità e lavorare per accrescere la resilienza dei territori».
Dalle città, sempre più vulnerabili a ondate di calore e inondazioni dovute a eventi atmosferici estremi, ai boschi (la stagione degli incendi potrebbe allungarsi di 20-40 giorni), alle campagne. Un settore particolarmente sensibile sarà infatti quello dell’agricoltura: temperature africane e lunghi periodi di siccità potrebbero ridisegnare completamente i campi coltivati.
«È auspicabile una profonda trasformazione del comparto, come d’altra parte suggerisce l’ultimo documento dell’Unione europea Farm to Fork Strategy, che delinea la nuova agricoltura nel contesto del Green Deal voluto da Bruxelles», conferma la professoressa. «Si dovrà puntare su nuove tecniche di irrigazione, una migliore gestione della fertilità del suolo, un miglioramento genetico delle colture in modo che si adattino di più al nuovo clima. Ma per realizzare tutto questo occorrono risorse e la volontà politica di indirizzare il sistema produttivo verso il cambiamento».
Un quadro drammatico e una sfida ardua, quella di convincere la politica italiana ad agire immediatamente. «Ma sono ottimista», conclude Spano. «Negli ultimi anni ho visto crescere in Italia la richiesta di protezione ambientale. Certo, va aumentata ancor più tra i cittadini e i politici la consapevolezza di cosa ci aspetta. Ma oggi le nostre conoscenze ci permettono di valutare il rischio climatico e di consegnare tali valutazioni nelle mani di chi poi deve decidere. È anche questo il senso del nostro rapporto».
da Repubblica.it, 16/9/2020