Fra le tante notizie e cronache di questa estate afflitta da tanti problemi, fra cui quelli del coronavirus, apparse sui mezzi di comunicazione di massa, soprattutto sui social, ha senza dubbio colpito l’enorme afflusso di turisti nelle località montane in particolare delle Alpi, con maggior frequenza sulle Dolomiti. Hanno fatto impressione le foto delle code chilometriche, in barba al distanziamento sociale, alla partenza degli impianti di risalita; particolarmente impressionanti le immagini più diffuse relative a quelle al Passo Pordoi, al Sassolungo e a Malga Ciapela per salire sulla cima della Marmolada e queste ultime sono anche comprensibili visto che il ghiacciaio si ritira a vista d’occhio perché perdere l’occasione di calpestarlo fin che c’è!
A parte le considerazioni sulla male educazione di molti turisti non sensibili al rispetto di un ambiente particolare e fragile come quello della montagna ed anche sul proliferare di questi impianti di risalita che, quando si esagera, deturpano il paesaggio oltre ad aumentare i rischi di dissesto idrogeologico, quello che più ha colpito e che però non è stato evidenziato dai mezzi di comunicazione di massa è stato l’aumento impressionante di ampie aree, limitrofe alle aree di partenza di questi impianti, adibite a parcheggio per accogliere il considerevole aumento delle auto dei turisti stessi. In termini di consumo di suolo queste aree possono considerarsi recuperabili in quanto non coperte da asfalto ma sicuramente il compattamento indiscriminato effettuato e in molti casi l’assestamento della copertura con breccino hanno alterato un’importante funzione del suolo che è quella legata all’infiltrazione dell’acqua. Quello che i mezzi di comunicazione hanno però riportato sono state le notizie sulle numerose esondazioni di piccoli torrenti e fiumi (l’Adige, ad esempio) attribuendole a eventi piovosi di notevole intensità ma che ormai, alla luce dei cambiamenti climatici in atto, eccezionali non sono più. È evidente che se si continua a impermeabilizzare il suolo o a ridurne drasticamente la capacità di infiltrazione in vaste aree proprio nei fondovalle adiacenti ai corsi d’acqua e dove sono collocati la maggior parte degli impianti di risalita la situazione peggiorerà ancor di più, visto l’ormai consolidata tendenza degli andamenti climatici che prevedono sempre più frequenti nubifragi di notevole entità (bombe d’acqua).
L’obiettivo dell’inversione di tendenza al progressivo consumo di suolo e, a maggior ragione, del consumo “zero” al momento pare proprio un’utopia!
Per contro esiste un’altra montagna, quella povera, di vaste aree dell’Appennino che da anni va incontro ad un progressivo spopolamento e l’abbandono, la mancanza di cura e di quella manutenzione che i vecchi agricoltori, allevatori e operatori di vari settori operavano ha portato al degrado attuale, con i vari smottamenti in seguito a eventi meteorici estremi; i vecchi sentieri sono diventati per lo più fosse di scorrimento dell’acqua; il bosco riconquista in maniera disordinata i campi che prima erano coltivati o erano prati per il pascolo del bestiame. In quelle zone il turismo è quasi scomparso e, peggio, quei territori così fragili devono sopportare l’invasione, in particolari periodi, di orde umane alla ricerca, o meglio alla predazione, di funghi o altri prodotti del bosco.
Eppure, proprio in questa montagna, così impoverita, si possono trovare esempi virtuosi di imprenditori, per lo più giovani, che hanno ripristinato aziende in chiave moderna come, ad esempio, l’allevamento di ovini o bovini e la relativa trasformazione del latte o la coltivazione di produzioni tipiche della montagna i cui effetti collaterali di queste attività sono rappresentati dall’encomiabile cura e difesa del territorio.
Ciò dimostra che una soluzione ci sarebbe per salvare queste aree montane e prevenirne il degrado: basterebbe sostenere e investire risorse per incentivare queste iniziative; sarebbe anche un modo intelligente di destinare risorse alla prevenzione del territorio anziché a interventi riparatori dei vari dissesti.