La migrazione della popolazione dalle aree rurali a quelle urbane avviene da tempo ma è esplosa con la globalizzazione. Oggi, circa il 55% della popolazione mondiale già vive nelle metropoli, contro il 30% del 1930, mentre per il 2050, quando la popolazione mondiale raggiungerà i 10 miliardi di abitanti, si stima che la percentuale delle persone che vivranno nelle aree urbane salirà a circa il 70% del totale. Una trasformazione radicale che ha ripercussioni in diversi settori, dalla mobilità e circolazione delle persone alla ricettività abitativa, dalla produzione crescente di gas serra alle emergenze sanitarie. Non certamente ultime le problematiche legate alla qualità dell’alimentazione e alla sua disponibilità, per fare fronte alle quali, tra le diverse possibilità, vi è anche il ricorso crescente all’agricoltura urbana, attuata in forme e con finalità diverse.
Una forma che nel nostro Paese ha origini lontane (basti pensare agli orti di guerra nati durate il secondo conflitto mondiale), è rappresentata dagli orti urbani. Viene generalmente attuata dietro concessione per un periodo definito di spazi comunali inutilizzati, a fronte della corresponsione di un affitto più che altro simbolico, a singoli cittadini, spesso riuniti in associazioni, per la produzione di frutta e ortaggi destinati ai loro fabbisogni. Si tratta di superfici di dimensioni ridotte che, pur potendo essere collocate in ogni parte della città, in genere sono situate in zone periferiche e a volte degradate. Oltre produrre frutta e verdura fresca a chilometro zero e a costi contenuti per gli affidatari, assolvono anche altre finalità, come: favorire la socializzazione tra le persone, ridurre la marginalizzazione, creare più attenzione verso l’ambiente e la biodiversità, ridurre il degrado di determinate aree. I metodi di coltivazione sono quelli legati alle tecnologie tradizionali, ispirati però a una gestione sostenibile. Questo tipo di agricoltura urbana si va sempre più diffondendo e non riguarda soltanto i grandi centri urbani. Secondo un’indagine condotta da Coldiretti, nel 2013 la superficie nazionale destinata agli orti urbani era di circa 330 ha e si è elevata a circa 450 ha nel 2017, con un incremento quindi di oltre il 36%.
Forme di agricoltura urbana, basate su metodi e tecniche di coltivazione sostenibili ma anche altamente tecnologiche e mirate a produrre cibo a chilometro zero per la collettività, sono rappresentate dalle “Vertical Farming” e dalle serre sui tetti di edifici preesistenti, ed anche in acqua. Sono nate dove minore è la disponibilità di terreno coltivabile e alta è la densità abitativa, e cioè in paesi come Singapore, Emirati arabi, America del nord, ma che hanno poi trovato una crescente diffusione in tutto il mondo, compreso il nostro Paese, in virtù dell’adozione di soluzioni innovative basate sulla sostenibilità ambientale e di costi di realizzazione e di gestione divenuti meno proibitivi.
Una segnalazione particolare merita la Vertical Farm di Dubai, città posta in zona desertica costretta ad importare molto del cibo necessario, con conseguente forte emanazione di emissioni, da parte dei mezzi di trasporto, non in linea con il tema della sostenibilità, che è uno dei temi di Expo 2020, che si aprirà a Dubai nell’ottobre di quest’anno. E’ stata realizzata proprio in vista di Dubai Expo 2020, tramite una partnership tra una start-up della Silicon Valley ed Emirates Flight Catering, e viene considerata come una delle più grandi, se non la più grande, Vertical Farm del mondo. La start-up ha esperienza nel settore e nello sviluppo di specifici algoritmi che calcolano anche le dosi ottimali di fertilizzanti per ogni singola coltura. La Farm attua la coltivazione idroponica, ed è in grado di produrre, senza l’impiego di pesticidi ed erbicidi e con un risparmio idrico del 99% rispetto alla coltivazione in pieno campo, ben 2,7 t di verdure al giorno.
Soluzioni di Vertical farming, vengono adottate anche dal settore distributivo, con realizzazioni all’interno di punti vendita (In-store Farm), come centri commerciali, supermercati, ma anche negozi e ristoranti, al fine di offrire prodotti freschi e a chilometro zero ai clienti. Un esempio significativo per le sue dimensioni di In-store Farm (80 m2), è quello realizzato in un supermercato di Parigi da una start-up berlinese, specializzata in questo settore e nel retail, oltre che nell’utilizzo di tecnologie cloud per il monitoraggio e la gestione degli impianti in remoto. Ne consegue che l’In-store Farm del supermercato parigino è monitorato e gestito direttamente da Berlino. La star-up opera con diverse catene distributive e non solo in Francia, ma anche in altri paesi europei.
Tra le serre realizzate sul tetto di edifici, ha suscitato grande interesse la nuova serra della Lufa Farms realizzata in un sobborgo di Montreal nel Quebec (Canada). L’azienda agricola Lufa, a Montreal aveva già costruito tre serre urbane sul tetto di edifici per una superficie totale di circa 1,3 ha, ma l’ultima nata, considerata la più grande serra sul tetto al mondo (1,5 ha), ha consentito di raddoppiare tale superficie, permettendo così di soddisfare il fabbisogno di verdure fresche per il 2% della popolazione cittadina. La coltivazione è idroponica e il sistema di irrigazione a circuito chiuso utilizza l’acqua piovana catturata dalla serra. Il razionale inserimento della serra con l’edificio sottostante, consente di fornire vantaggi termici ad entrambe le strutture.
Sempre in tema di serre urbane di concezione innovativa, non si può non segnalare la serra galleggiante Jellyfish Barge (Zattera Medusa), concepita proprio per essere posta in mare, o in altre acque. E’ stata sviluppata in Italia dalla start-up Pnt (Proget nature), all’interno di uno Spin-off dell’Università di Firenze, sotto il coordinamento del professor Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (Linv). Si tratta di una serra modulare a pianta ottagonale, destinata alla produzione idroponica di ortaggi e altri vegetali, ed autonoma in termini energetici in quanto sfrutta l’energia solare. La base in legno poggia su tamburi vuoti in plastica riciclata posti sotto le otto sezioni del natante. Lungo il perimetro sono alloggiati sette moduli per la dissalazione dell’acqua attraverso un processo di distillazione solare. Questi sono in grado di produrre giornalmente l’acqua dolce necessaria alla coltivazione idroponica. La serra, alta 3,5 metri, ha una struttura in legno e acciaio con rivestimento in polietilene. Il monitoraggio del processo produttivo è automatico e avviene in remoto. La sua conformazione ottagonale consente di abbinare più moduli in modo da realizzare una piattaforma galleggiante delle dimensioni volute collegata a terra da una passerella. L’installazione tipica è costituita da quattro moduli di serra e da un modulo di connessione. Quest’ultimo rappresenta uno spazio comune su cui sviluppare attività ludiche, sportive ed anche attività commerciali, come bar e punti vendita dei prodotti ottenuti dalle serre.
Anche nel settore zootecnico si hanno esempi di agricoltura urbana galleggiante. La Floating Farm (Fattoria Galleggiante), realizzata nel porto di Rotterdam, è stata concepita dall’Istituto agroalimentare Courage, dal Movimento nazionale per l’agricoltura urbana e da Peter van Wingerdin della Beladon, una società leader nella costruzione di edifici galleggianti. Si tratta di una vera e propria azienda zootecnica galleggiante sulle acque del porto e collegata a terra con una passerella. E’ strutturata su tre piani, di cui: il primo occupato da una stalla per una quarantina di vacche da latte; il secondo destinato allo stoccaggio dei mangimi e agli impianti di lavorazione del latte; il terzo riservato al pubblico. La stalla, con pavimento in gomma, è dotata di moderne tecnologie di allevamento. La mungitura è robotizzata e anche i liquami e gli altri liquidi di pulizia sono allontanati da uno “slurry robot”, per essere poi recuperati e rimessi in circolo. Anche l’alimentazione è fatta con sistema automatizzato: i diversi mangimi vengono miscelati e la razione viene poi distribuita con nastro trasportatore. Il mangime è fondamentalmente costituito dall’erba che proviene da un campo da golf e dallo stadio cittadino, dai residui di lavorazione di un birrificio e da altri scarti e residui alimentari. Il latte prodotto viene in parte pastorizzato e trasformato in yogurt direttamente sul posto. L’energia necessaria è prodotta da un impianto fotovoltaico e da turbine eoliche, ed anche l’acqua piovana viene recuperata. Sulla terra ferma, di fronte all’ormeggio, un prato recintato consente agli animali di pascolare. I vitelli, dopo essere stati svezzati, vengono portati sulla terra ferma per essere allevati. Le femmine verranno poi riportate sulla piattaforma in prossimità del primo parto.