Sotto gli occhi di tutti vi sono i diversi movimenti d’opinione che soprattutto sulle reti telematiche danno avvio a moti sociali contrari a un’alimentazione basata sui criteri proposti dalla modernità privilegiando nuovi stili e in questo quadro solo abbozzato è da inserire una recente classificazione internazionale (NOVA worldnutritionjournal.org/index.php/wn/article/view/5/4) che suddivide gli alimenti consumati dall’uomo in base ai trattamenti ai quali sono sottoposti: Gruppo 1 Alimenti non trasformati o minimamente trasformati; Gruppo 2 Ingredienti culinari trasformati; Gruppo 3 Alimenti trasformati; Gruppo 4 Prodotti alimentari e bevande ultratrasformati. Nel quarto gruppo sono compresi molti ingredienti e tra questi zuccheri, oli, grassi, sale, antiossidanti, stabilizzanti, coloranti e conservanti usati nei prodotti ultralavorati e ultraprocessati con lo scopo di conservarli, imitare le qualità sensoriali degli alimenti degli altri gruppi, mascherare qualità sensoriali indesiderabili del prodotto finale o per dargli aspetti utili alla propaganda e commercializzazione. A questa categoria appartengono anche i cibi un tempo denominati junk food, i cosiddetti cibi spazzatura, in continua, forte crescita tra i giovani e nella popolazione di basso reddito non solo costituendo un pericolo per la salute, evento largamente segnalato, ma favorendo modelli di produzioni agro-zootecniche che non appartengono all’identità del nostro paese e sulle quali è necessario fare particolare attenzione.
Partendo dal principio che l’uomo è un onnivoro che deve alimentarsi con una grande varietà di cibi, non dimenticando che sola dosis facit venenum e che ogni alimento può divenire pericoloso se usato in modo non corretto, non si possono sottovalutare le considerazioni e le critiche che da più parti vendono sollevate per gli alimenti ultratrasformati. Allo stato attuale delle conoscenze, oltre ai rischi e pericoli di tipo tossicologico per questi alimenti usati in modo eccessivo e non appropriato, sono da considerare gli effetti che questi alimenti industriali hanno sul sistema alimentare nel suo complesso e sulla filiera dalla terra alla tavola soprattutto perché il cibo non è quello originario e naturale, ma quello dell’industria. Come le bevande a base di cola con le loro marche hanno in parte sostituito la birra e il vino, alla patata fritta è subentrata il brevettato snack salato Pringles e in un prossimo futuro la bistecca potrà essere rimpiazzata dai marchi già brevettati di finte carni e di alimenti industriali prodotti da cellule animali coltivate. Una infinità di alimenti ultratrasformati sono già su gli scafali dei supermercati e sono continuamente pubblicizzati nei sempre più invadenti mezzi di comunicazione di massa, nei quali il consumatore vede la marca con il suo logo e non più il produttore delle materie d’origine. Soprattutto i bambini già da tempo subiscono un imprinting alimentare sulla marca più che sull’alimento e come questo è prodotto nel campo o nella stalla e l’agricoltore e l’allevatore sono stati sostituiti dall’industria e dal mercato e ben poco possono fare le fattorie didattiche per insegnare ai bambini che il pane, la pasta e i cracker nascono dal grano e non da un’industria.
Nelle campagne pubblicitarie mediatiche le grandi industrie alimentari facilmente evitano di affrontare gli impatti ambientali e il benessere degli animali e dei lavoratori, quando non usano questi argomenti a scopo pubblicitario vantando “senza” questo o quell’ingrediente che poi è sostituito con altro ingrediente non privo d’impatto ambientale o con altri aspetti negativi come è stato per l’olio di palma. Allo stesso tempo chi nei campi e negli allevamenti produce bene se-condo sistemi tradizionali, per altro in continuo miglioramento, non di rado è criminalizzato di produrre inquinamenti e esercitare maltrattamenti, facendo di casi particolari una regola generale che contribuisce ad allontanare i consumatori dai prodotti originali indirizzandoli a quelli industriali ultratrasformati e per i quali si chiede una sempre più lunga conservazione dilatando a dismisura il concetto di freschezza.
Non siamo in un’era di cambiamenti, ma in un cambiamento d’era e anche in alimentazione le antiche tradizioni sono in crisi e se ne stanno creando di nuove sempre più d’impronta industriale e commerciale diffuse attraverso gli alimenti ultraprocessati e ultratrasformati e su questo anche in Italia, soprattutto per quanto riguarda le produzioni agricole e zootecniche, si sono già alzati segnali d’allarme (Alessandro Fantini – I tanti pericoli dei cibi ultra-processati – Ruminantia, 20 agosto 2020). L’Italia per la scarsità di terra coltivabile non può competere nella produzione delle commodity alimentari che sono invece largamente impiegate negli alimenti industriali ultratrasformati e standardizzati e può soltanto produrre alimenti con forti legami con il territorio, sfruttando sistemi di trasformazione e conservazione semplici sviluppati dalle tradizioni, come è il caso delle carni di animali autoctoni o tipici trasformate e conservate sfruttando le caratteristiche ambientali e usando solo il sale e il tempo. Nell’attuale periodo di necessario sviluppo economico mai come oggi in Italia è necessario proteggere e soprattutto incrementare l’uso degli alimenti tradizionali e per questo sono necessari interventi finanziari di sostegno in particolare di sviluppo delle produzioni agro-zootecniche italiane. Indispensabile per questo è l’accrescimento delle conoscenze scientifiche e tecnologiche sugli alimenti di produzione, trasformazione e conservazione tradizionale che non possono ottenersi solo con finanziamenti privati, ma che hanno bisogno di interventi pubblici su progetti relativi le produzioni alimentari italiane utilizzando il potenziale già esistente nei laboratori di ricerca del CRA (Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura), delle Stazioni Sperimentali di pertinenza agro-alimentare e soprattutto delle Università italiane.