Una delle ipotesi che sono state fatte sull’origine della pandemia da Covid-19 in Cina è quella della diffusione del contagio a partire dalle carni e dagli animali vivi esposti per la vendita in un mercato di Wuhan. Si sono registrati focolai di contagio anche in diversi altri paesi, principalmente negli Stati Uniti, Irlanda, Australia e Spagna. Più recentemente, situazioni analoghe si sono verificate fra gli addetti alla macellazione e lavorazione delle carni in stabilimenti in Germania e in Italia. In Germania a Gütersloh ed in Italia nelle province di Reggio Emilia e Mantova. I paesi più colpiti sono Viadana e Dosolo, con diversi comuni interessati in tutta la zona della bassa padana. Alla data del 6 luglio scorso i 68 lavoratori del mantovano risultati contagiati erano quasi tutti asintomatici o paucisintomatici, ma due di essi sono stati ricoverati.
Il cittadino cui arrivano queste notizie è portato verosimilmente a concludere che sono gli animali che arrivano al macello e le loro carni in fase di lavorazione all’origine della diffusione del virus e di chi sa quali altre malattie. È tutta legna sul fuoco della scelta alimentare dei vegani. Ma come stanno veramente le cose? Sentiamo alcuni esperti.
Leggiamo da Internet che Lawrence Young, professore di Oncologia Molecolare nell’Università di Warwick (UK), intervistato ha dichiarato: “le fabbriche e, in particolare, i luoghi di lavoro freddi ed umidi sono ambienti perfetti per la crescita e la diffusione del coronavirus. Il virus sopravvive molto bene sulle superfici fredde e, in assenza di adeguata ventilazione e luce solare, le goccioline contenenti il virus emesse con la tosse o gli starnuti da individui infetti sono, con tutta probabilità, il veicolo ideale per la diffusione ed il mantenimento del virus”. Ed inoltre: “in queste aree chiuse con intensa attività lavorativa, le distanze sociali sono difficili da mantenere. Si tende a parlare ad alta voce per superare il rumore delle macchine e questo aumenta la produzione e lo spargimento di goccioline e aerosol infettanti”.
Anche Timothy O’Shea, professore di Epidemiologia Veterinaria nell’Università di Edimburgo e James Wood, direttore del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Cambridge, hanno rilasciato commenti dello stesso tenore, sottolineando anche che, molto spesso, i lavoratori sono immigrati stranieri che non sempre possono contare su un’adeguata assistenza sanitaria e che vivono in baracche fatiscenti in condizioni di affollamento, dove evitare il contagio da eventuali infetti è pressoché impossibile.
Marta Messa, direttore dell’ufficio europeo di Slow Food punta il dito contro le dimensioni degli impianti industriali di macellazione e di lavorazione delle carni. In impianti di dimensioni artigianali, magari a conduzione familiare, le condizioni di lavoro e quelle igienico sanitarie sono sicuramente più “umane” e garantiscono maggiore sicurezza. Purtroppo, i piccoli macelli “artigianali” sono stati sistematicamente eliminati nell’Unione Europea, obbligando gli allevatori a portare il loro bestiame nei grossi impianti autorizzati, magari a molti chilometri di distanza, aggiungendo stress agli animali.
È pur vero che le norme comunitarie lasciano ampio spazio di manovra agli Stati Membri. In alcuni Paesi, come Germania, Austria, Italia e Francia, esistono già progetti sperimentali in base ai quali gli animali vengono macellati in azienda e poi trasportati all’impianto di lavorazione, senza causare loro ingiustificati stress in più.
A chi o a che cosa attribuire allora la responsabilità dei focolai di infezione da Coronavirus nei grossi impianti di macellazione? Puntare il dito contro gli animali e le loro carni è fuorviante alla luce delle evidenze sperimentali. Gridare “all’untore” senza giustificazione non è mai una prova di intelligenza.
Oggi sappiamo con certezza che il Coronavirus non si riproduce nella carne perché, per farlo, ha bisogno di un ospite vivo con cellule vive e funzionanti, in grado di assicurarne la replicazione. L’unica possibilità è che la carne venga manipolata da chiunque ignori le condizioni igieniche elementari obbligatorie, negli impianti di lavorazione e negli esercizi commerciali. Ma questo è, allora, tutto un altro discorso.