Una delle eredità principali della recente pandemia è la consapevolezza della necessità di improntare il nostro rapporto con le risorse naturali su canoni di maggior equilibrio e rispetto. Si tratta, in altri termini, di riconoscere ad esse quel ruolo regolatore della funzionalità dei sistemi produttivi e di consumo dal quale abbiamo cercato di affrancarci, come se la nostra sopravvivenza e il nostro benessere fossero strettamente dipendenti dalla dominazione e dal controllo dell’ambiente, anziché dalla sincronizzazione dei nostri ritmi con quelli ineluttabili che sono propri delle leggi della fisica e della biologia. La COVID-19 è esplosa a seguito di un costume alimentare, diffuso in alcuni paesi dell’Asia, sul quale non si esprime alcun giudizio di valore se non per segnalarne il significato, molto più che simbolico, in termini di mancato rispetto delle più elementari norme della convivenza con le risorse della natura. Queste ultime, a loro volta, non hanno tardato a riappropriarsi degli spazi lasciati temporaneamente privi di presidio, a seguito della chiusura forzata delle attività umane imposta dallo stato di emergenza.
Tali segnali suggeriscono inequivocabilmente l’inderogabile urgenza di modificare un atteggiamento culturale, consolidato nei secoli, di arrogante hybris nei confronti dell’ambiente. Troppo spesso la natura è stata relegata a un ruolo subalterno e funzionale al nostro benessere, dimenticando che tale scopo può essere perseguito non a suo discapito, ma insieme e in armonia con essa. La prevaricazione dell’hybris dell’antropocentrismo è destinata a imbattersi, prima o poi, nella nèmesis della giustizia e dell’equilibrio che regolano la vita e la sopravvivenza su questo pianeta. Formazione, ricerca e progresso non devono dunque arrestarsi o arretrare, ma approfondire la conoscenza delle funzionalità degli ecosistemi allo scopo di coniugarla col benessere dell’uomo attraverso una relazione win-win.
La responsabilità delle scienze economiche, su questo piano, è centrale. Ad esse si chiede di promuovere una transizione della società verso modelli di produzione e consumo coerenti con i criteri di convivenza e sostenibilità appena richiamati. Non è un caso che il pensiero economico, di fronte ai fallimenti della dottrina classica, sulla quale tuttora si formano generazioni di studenti, abbia ramificato il proprio sviluppo attraverso l’adozione di nuovi approcci paradigmatici. Tra i più rilevanti, occorre menzionare quello della cosiddetta “green economy”, una teoria dello sviluppo con connotazioni egualitarie ed ecologiche. La green economy misura ricchezza e benessere non più in termini di flussi di PIL, ma come accumulazione di stock di diversi tipi di capitale, compreso quello naturale. L’economia verde consiste sostanzialmente nel ridefinire l’obiettivo delle attività legate alla produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi in migliori condizioni di benessere umano nel lungo periodo, in modo tale da non esporre le generazioni future a rischi ambientali.
In tale contesto teorico, la ridefinizione dell’organizzazione dei processi trova efficace sintesi nella concezione circolare dell’economia. Secondo la fondazione Ellen MacArthur, che da anni ne promuove l’adozione, l’economia circolare è "un'economia industriale che è concettualmente rigenerativa e riproduce la natura nel migliorare e ottimizzare in modo attivo i sistemi mediante i quali opera”. Detto in altri termini, nell’economia circolare i rifiuti di un processo di produzione e consumo sono reimmessi come input nello stesso o in un differente processo. Nei processi industriali così concepiti, materia, energia e informazione fluiscono lungo due cicli distinti: il primo, quello biologico, prevede il ritorno in sicurezza di materiali e processi nella biosfera, mentre nel secondo, quello tecnico, essi sono in grado di rientrare nei processi senza impattare la biosfera. Il passaggio all’economia circolare è un processo culturale profondo che implica una serie di radicali revisioni di metodo e sostanza.
Innanzitutto, l’orizzonte temporale dell’analisi di impatto delle attività umane si modifica radicalmente, passando da logiche e cadenze geologiche a ritmi ben più sostenuti, identificabili con quelli dei sistemi ecologici. Se oggi parlare di Antropocene ha dunque significato mediatico efficace, nel momento in cui si intende calcare la mano sul ruolo invasivo assunto dalle attività umane nei confronti dell’ecosistema, la realtà dei fatti impone una valutazione delle interrelazioni tra uomo e ambiente che si adegui ai tempi e alle modalità con cui quest’ultimo si evolve e metabolizza le conseguenze dell’azione della componente antropica, che è quella più attiva e incisiva.
Sul piano normativo, l’economia circolare modifica la natura delle raccomandazioni, orientando la valutazione della funzionalità dei cicli produttivi, distributivi e di consumo dall’adozione di parametri di eco-efficienza a favore di criteri di eco-efficacia. Non ci si accontenta più, insomma, di minimizzare gli impatti, ma di escluderne a priori l’esistenza. In termini ideali, per ora puramente teorici, lo sviluppo di processi circolari avviene nel rispetto delle leggi della termodinamica, per cui non si pongono i problemi della dispersione di energia, dell’inquinamento ottimale, dello spreco o dello smaltimento dei rifiuti. Sul piano operativo, si tratta comunque di un ambizioso approccio che ricopre un ruolo prevalentemente pedagogico, teso a diffondere un atteggiamento di assoluta intransigenza nei confronti di una presunta azione “taumaturgica” del progresso e dell’innovazione, capaci di compensare le perdite di capitale naturale con migliori condizioni di efficienza, proprie di una visione debole della sostenibilità, ritenuta non più accettabile in ambiti sempre più ampi di analisi normativa.
Il capitale naturale non è sostituibile, ma deve essere anzi tutelato e accumulato. Diventa così una componente strategica ai fini della definizione della competitività delle imprese, delle filiere, dei sistemi locali e globali di imprese. Suolo, acqua e aria, intesi non solo in termini assoluti ma valutati anche e soprattutto nella loro capacità di erogare nel tempo servizi ecosistemici, divengono centrali nel nuovo paradigma circolare. Si pone dunque il problema delle forme di possesso che danno accesso al loro uso e alla loro gestione. Sappiamo bene che parte di esse si configura come bene pubblico, difficilmente appropriabile, a cui può certo riconoscersi un valore, ma non un prezzo che ne consenta la distribuzione attraverso i meccanismi degli scambi. D’altra parte, anche quando il mercato funziona, ciò non implica automaticamente il conseguimento di soluzioni distributive efficienti e, tanto meno, eque. Per tutte le risorse naturali si pone perciò il problema di una loro gestione, da rendere oggi compatibile con i canoni della circolarità. Una chiara attribuzione dei diritti di proprietà di suolo, acqua e aria rappresenterebbe una soluzione ottimale sul piano istituzionale, nel momento in cui il mercato garantisse tale compatibilità. La domanda di fondo diventa dunque: a quali condizioni l’accumulazione e la tutela dello stock di capitale naturale diviene conveniente per le imprese, per la collettività e i sistemi di produzione, senza essere essa stessa fonte di diseguaglianza e ingiustizia distributiva? Il paradigma della circolarità, basato sullo sviluppo di attività di riuso, riciclo e recupero, presuppone per definizione nuove fonti di valore che, opportunamente governate, possono favorire condizioni di benessere diffuso attraverso la gestione condivisa di filiere integrate verticalmente e orizzontalmente da meccanismi istituzionali che ridefiniscono la ripartizione dei benefici tra quanti concorrono alla loro funzionalità.
La centralità del capitale naturale riconduce la natura stessa delle filiere alla loro dimensione territoriale. In altre parole, la collocazione spaziale dei processi in contesti ambientali favorevoli e duraturi diviene fattore dirimente ai fini del loro posizionamento nell’arena competitiva. La sovrapposizione filiera/territorio assume significato analogo sia per processi globalizzati sia per realtà locali circoscritte. Pur ragionando su diverse scale, imprese multinazionali e filiere corte fonderanno in misura crescente la propria stessa ragione di esistere e prosperare sulla dotazione di capitale naturale che riusciranno a tradurre in valore e benessere.
L’impiego dei servizi erogati dal capitale naturale sposta l’interesse dell’analisi positiva e normativa sulla bioeconomia. Parliamo, per dirla con la Commissione europea, dell’utilizzazione sostenibile di risorse naturali rinnovabili e della loro trasformazione in beni e servizi finali o intermedi. La bioeconomia comprende dunque il sistema agro-alimentare, ma anche i settori delle biotecnologie e delle bioenergie. La bioeconomia è centrale nel paradigma circolare e nella politica chiamata a governarla. A questo proposito, l’Unione Europea ha di recente presentato due comunicazioni che definiscono le linee guida delle strategie denominate “Biodiversity” e “Farm to fork”, che danno sostanza alla visione Green Deal che caratterizzerà l’intero mandato della Presidentessa von der Leyen. Si tratta di strategie ambiziose, che per ora sono ben definite negli obiettivi, fissati per il 2030, molto meno nei percorsi che intendono intraprendere per conseguire i target. Occorre riflettere sul fatto che alla presentazione di tali strategie non abbia partecipato il Commissario all’agricoltura, come se si trattasse di azioni politiche che esulano dalle sue competenze. Ciò avviene in un ambito istituzionale nel quale è in atto un processo di riforma della Politica Agricola Comune, avviato nel corso del precedente mandato, e che dovrà realizzarsi per essere operativo entro il 1 gennaio 2023. Le strategie “Biodiversity” e “Farm to fork” dovrebbero collocarsi gerarchicamente al di sopra della nuova PAC, per cui è da attendersi una ridefinizione del percorso di riforma finora attuato. In attesa di verificare in che modo la nuova PAC sarà integrata nel Green Deal europeo, l’osservazione dei target ambiziosi delle due strategie dedicate alla bioeconomia invita a formulare una serie di brevi riflessioni che si riportano a conclusione della presente nota.
Lo stato dell’arte dell’agricoltura e, più in generale, della bioeconomia europea suggerisce l’esistenza di un ampio divario tra la realtà operativa e quella immaginata dagli estensori delle comunicazioni comunitarie. Consola pensare che tale divario è meno accentuato per quel che riguarda l’agricoltura italiana: il nostro territorio è infatti popolato di imprese agro-alimentari che fondano prevalentemente la loro competitività e la loro stessa natura proprio sulle loro specificità locali, sulle tipicità e comunque su condizioni ambientali irriproducibili altrove. D’altronde, lo stesso Report annuale sullo stato dell’economia circolare, presentato di recente dal Circular Economy Network, colloca il nostro paese in cima alla graduatoria continentale relativa alle dimensioni del riuso e del riciclo. La nostra bioeconomia è già dunque ben orientata nella direzione impressa dalla Commissione europea, il che da una parte rassicura i nostri operatori, mentre dall’altra induce a pensare che la maggior parte degli aiuti dovrà essere dirottata verso i territori che ne necessitano maggiormente. A questo proposito, se prevarrà la linea della promozione della sostenibilità attraverso meccanismi incentivanti anziché basarsi su sistemi di vincoli e sanzioni, è da ritenersi plausibile l’ipotesi che vede i nostri agricoltori premiati in misura maggiore per il loro contributo alla realizzazione delle strategie comunitarie. L’azione attraverso incentivi è peraltro da preferire, perché garantirebbe anche nel breve periodo condizioni di competitività dell’offerta agro-alimentare europea nei mercati internazionali, scongiurando così il pericolo di una selezione avversa da parte dei consumatori nei confronti dei prodotti di alta qualità ambientale per via di eventuali differenze di prezzo non traducibili in palesi differenze qualitative. La penalizzazione competitiva dei prodotti europei attraverso standard ambientali ritenuti onerosi è un’eventualità paventata da diverse categorie di stakeholders, alle quali le autorità dell’Unione dovranno garantire condizioni di assoluta tutela della concorrenza e della sicurezza alimentare. Il tempo, da parte sua, sarà galantuomo nell’assicurare nel lungo periodo posizioni di preminenza concorrenziale ai sistemi di produzione e consumo che per primi intraprenderanno il percorso dell’implementazione dei paradigmi di circolarità. La ricerca economica, a questo proposito, fornisce già ora evidenze di diffusa disponibilità a pagare per contenuti di prodotto improntati su canoni di sostenibilità. Si parta il prima possibile, insomma. Il resto verrà da sé.
*Presidente SIEA (Società Italiana di Economia Agroalimentare)