Presso il Centro Studi francesce Agriculture Stratégies indicano nella crisi del coronavirus l'occasione per rimettere in discussione il dogma dell'approvvigionamento sui mercati mondiali a beneficio della cooperazione tra politiche agricole nazionali.
Interruzioni della catena di approvvigionamento, carenza di manodopera sono ombre che aleggiano sulla sicurezza alimentare globale un decennio dopo la crisi alimentare del 2007-2008 e le sue repliche nel 2010 e nel 2012. Vietnam e Kazakistan hanno annunciato limitazioni alle esportazioni di riso e farina, non per paura di carenze ma per evitare movimenti speculativi sul mercato interno. Lo stesso vale per la Russia, che ha sbloccato un milione di tonnellate di grano dai suoi stock strategici.
Di fronte a queste decisioni, le organizzazioni internazionali responsabili della salute (OMS), dell'agricoltura (FAO) e del commercio (OMC) fanno appello alla responsabilità degli Stati affinché non adottino misure unilaterali di restrizioni alle esportazioni. Come in particolare per il riso nel 2007, il timore è che il moltiplicarsi di questo tipo di decisione alimenti ulteriormente le strategie speculative.
Certo, le scorte mondiali di cereali sono più del doppio di quelle dell'ultima crisi alimentare. E, ad eccezione della Russia meridionale, lo stato delle colture che escono dall'inverno è piuttosto soddisfacente nelle principali aree di produzione e annuncia un altro anno record.
Tuttavia, la localizzazione di questi stock necessari per arrivare fino al prossimo raccolto solleva degli interrogativi: il 55% degli stock mondiali di fine campagna si trova in Cina. La Cina è in effetti il primo produttore, il primo consumatore e il primo ammassatore di cereali. La volontà di controllare la propria sicurezza alimentare è feroce, sia per garantire l'equilibrio economico tra città e campagne, sia per garantire la stabilità politica del regime: i prezzi agricoli cinesi sono i più alti al mondo, il grano cinese viene scambiato a un prezzo che è il doppio di quello europeo!
Se la formica cinese funziona come deposito di grano di ultima istanza a beneficio della sua popolazione e dell'intero pianeta, questo non è il caso dell'Europa. In effetti, l'Unione Europea, con un livello di stock equivalente al 12% del consumo annuo, vale a dire 43 giorni, assume il ruolo di cicala. È il livello peggiore al mondo tra i principali paesi produttori, dietro Russia (18%), India (23%), Stati Uniti (25%) e Cina, come abbiamo visto, che ha l'equivalente di nove mesi di consumo (75%).
In effetti, è come se l'Unione europea soffrisse di un'avversione per le scorte alimentari: "gli stock sono costosi!" è un ritornello che si sente ancora spesso.
È lo stesso nei consessi multilaterali come l'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) in cui, ricordiamolo, le scorte alimentari volte a stabilizzare i mercati sono… vietate!
Dato che il cambiamento climatico si fa pressante, è realmente opportuno testare la resilienza dell'umanità? Va anche rilevato che, per quanto riguarda il petrolio, i paesi europei dispongono di scorte strategiche equivalenti a novanta giorni di consumo: nulla di simile per l'alimentazione.
Le regole agricole dell'OMC sono eredità degli anni '90, epoca in cui si credeva nel potere autoregolante dei mercati al punto da decidere di abolire le politiche agricole stabilizzatrici. Tuttavia, fortunatamente, a parte la politica agricola comune (PAC) che prosegue nella sua traiettoria neoliberale, gli altri paesi hanno rafforzato le loro politiche agricole, in particolare dalla crisi alimentare del 2007-2008.
Quindi speriamo che la crisi del coronavirus sia il fattore scatenante per rimettere in discussione le cicale europee: "approvvigionarsi sul mercato mondiale" è una teoria senza rapporto con la realtà, nel momento in cui il cibo viene prodotto in paesi che hanno politiche agricole il cui obiettivo primario è alimentare la propria popolazione.
da Agrapress, Rassegna della stampa estera n. 1336, 30/4/2020