Le informazioni che ci sono arrivate dalla visione del programma “Report” del 13 aprile scorso, su Rai 3, si possono riassumere nei seguenti punti:
a) le zone della pianura padana dove si è avuta la maggior diffusione del virus sono caratterizzate dalla presenza di molti allevamenti intensivi che producono enormi quantità di liquami, ricchi di ammoniaca, liquami che vengono sparsi sui campi come fertilizzanti, spesso irresponsabilmente;
b) le attività zootecniche sono responsabili del 51% dell’inquinamento da gas serra, quindi più delle attività industriali e dei trasporti messi insieme;
c) le stesse zone, dove il Covid19 si è diffuso in maniera più violenta, sono caratterizzate dalle concentrazioni più elevate di PM10;
d) lo spandimento dei liquami favorisce la formazione del particolato PM10;
e) gli allevamenti intensivi possono rappresentare un rischio di incubazione e trasmissione del Covid19.
Ne consegue il facile sillogismo, che coincide con il messaggio percepito dai telespettatori: il Covid19 viene veicolato dalle particelle PM10; il particolato si forma in conseguenza dello spandimento del letame prodotto dagli allevamenti intensivi; ergo la responsabilità della epidemia in Lombardia è, in massima parte, delle attività zootecniche.
Tutto ciò ci impone di dare delle risposte con argomenti, questa volta, documentati.
a) Un recente e, per ora unico, studio dei ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale (1) mette in correlazione l’alto numero di contagi verificatosi in alcune province dell’Italia del nord con lo sforamento delle soglie di attenzione del PM10. I ricercatori non hanno misurato direttamente la trasmissibilità del contagio, ma hanno semplicisticamente correlato i contagi con le emissioni. Senza un nesso causale certo, entrambi i fenomeni osservati potrebbero dipendere dalla elevata densità della popolazione in quelle zone. Un’elevata concentrazione umana comporta più attività industriali, più traffico privato e di merci, più trasporti pubblici, più riscaldamento domestico, industriale e pubblico e, soprattutto, una più elevata probabilità di contrarre una patologia ad altissima contagiosità interpersonale come il Covid19.
b) Gli allevamenti producono particolato. Su scala nazionale, l’ISPRA certifica che le emissioni di PM10 da allevamenti rappresentano il 12% del totale. In Emilia-Romagna, una regione ad alta concentrazione di allevamenti intensivi, Stortini e Bonafé dell’ARPA Emilia, nel 2017 hanno stimato che il contributo annuo al particolato grosso fosse pari al 18%, comprese le emissioni dirette di ammoniaca.
c) La volatilizzazione dell’ammoniaca dalle vasche dei liquami è molto bassa e limitata alle stagioni calde. È praticamente nulla nei mesi invernali, e l’epidemia si è verificata proprio d’inverno. Comunque, alcuni allevamenti hanno adottato da tempo accorgimenti come la copertura dei vasconi, l’impiego di biodigestori e l’acidificazione con additivi.
d) Non esiste alcuna evidenza scientifica documentata che gli animali in produzione zootecnica possano rappresentare un pericolo di contagio Covid19. Ricerche condotte dal Federal Research Institute for Animal Health in Germania hanno escluso che il virus possa svilupparsi in suini e polli, pur infettati sperimentalmente (2). Gli allevamenti intensivi, al contrario, sono presidi di biosicurezza contro l’introduzione di agenti infettivi esogeni che possano trasmettersi anche all’uomo, come abbiamo potuto vedere anche dalla trasmissione televisiva.
In conclusione, riteniamo che la trasmissione “Report” del 13 aprile scorso, abbia, non proprio in buona fede, fornito anche “fake news” allo scopo di ottenere elevati indici di gradimento dal pubblico.
(1) https://www.guapo-air.org/sites/default/files/2020-03/Evaluation%20of%20the%20potential%20relationship%20between%20Particulate%20Matter%20%28PM%29%20pollution%20and%20COVID-19%20infection%20spread%20in%20Italy.pdf
(2) https://www.fli.de/en/press/press-releases/press-singleview/novel-coronavirus-sars-cov-2-fruit-bats-and-ferrets-are-susceptible-pigs-and-chickens-are-not/