Ormai quando sento ripetere ossessivamente la parola ‘sostenibilità’ sento puzza di bruciato, dell’ennesimo trappolone. E mi vengono cattivi pensieri. Mi spiego. Dai due giorni del salone Marca a Bologna è uscita una indicazione precisa, basata su dati di fatto inoppugnabili e su un retropensiero non reso esplicito. La marca del distributore (MDD) è ormai una solida realtà economica e di mercato. Vale quasi 11 miliardi di euro di fatturato, con una crescita più di tre volte superiore rispetto a quella dell’industria alimentare italiana negli ultimi 17 anni. Anche la quota di mercato è cresciuta passando dall’11,3% nel 2003 al 19,9% nel 2019 e un ulteriore aumento è previsto nei prossimi anni. Le stime di The European House – Ambrosetti parlano di una quota di mercato della MDD del 25% raggiunta già durante quest’anno. I prodotti MDD sostengono il fatturato delle catene e aiutano le famiglie a risparmiare qualcosa come 2,8 miliardi di euro all’anno. Quindi applausi, visti i tempi grami per i bilanci dei grandi retailer.
L’exploit dei prodotti MDD si coniuga con la crescente sensibilità per modelli di sviluppo sostenibili dal punto di vista sociale, ambientale ed economico. C’è il pianeta da salvare, il cambiamento climatico da combattere, tutti vogliono cibi più ‘puliti’ e naturali, dall’origine tracciabile, carne prodotta senza ‘drogare’ gli animali, frutta e verdura senza residui chimici, meno plastica, meno sprechi, ecc. Il tutto ovviamente a prezzi più bassi possibili, perché anche i bilanci delle famiglie dei consumatori di questi tempi devono essere ‘sostenibili’.
Il messaggio uscito da Marca in sintesi è questo (lo scrivono loro nei comunicati): “La Distribuzione Moderna è già impegnata nel campo della sostenibilità ambientale e sociale e sta sviluppando nuovi progetti. La sostenibilità è riconosciuta come strategica, vengono definiti obiettivi specifici (quali la riduzione della plastica, la diminuzione delle emissioni, la tutela del benessere animale, la tracciabilità della filiera nei prodotti a Marca del Distributore), sono state create posizioni manageriali dedicate, la filiera è costantemente stimolata a muoversi in questa direzione, con risultati importanti dal punto di vista dello sviluppo dei partner della Marca del Distributore (MDD) e quindi dell’intero sistema produttivo”.
La sostenibilità nella Distribuzione Moderna (DM) è dunque un dato di fatto. Forti di questa sicurezza da Bologna è partito un altro messaggio rivolto alla ministra Bellanova e in subordine a tutto il mondo produttivo. “Dal 2021 lavoreremo solo con fornitori iscritti alla Rete del lavoro agricolo di qualità. Il tema del lavoro in agricoltura è estremamente critico: occorre prendere iniziative per garantire legalità e rispetto dei contratti”, dicono a una voce i n.1 di Coop, Conad-Auchan, ADM e Federdistribuzione. Musica per le orecchie della Bellanova. Alla politica si chiede di fare il suo dovere, di rendere questa legge ‘digeribile’ per le imprese, che finora l’hanno disertata, perché fonte di nuova burocrazia vessatoria.
Missione compiuta, viene da dire, il mondo produttivo è nell’angolo. A questo punto che può fare se non adeguarsi? E a che prezzo? Finora l’asticella della qualità in ortofrutta si è alzata inesorabile dalla produzione convenzionale a quella integrata, al biologico, al biodinamico, alle mille certificazioni, ai packaging riciclabili e sostenibili, ai mille lacci e lacciuoli che strozzano le imprese, senza una ricaduta sui prezzi dei prodotti, che hanno continuato a perdere valore. Intanto le catene crescevano e si moltiplicavano, seguivano le loro logiche di business dove il prezzo più basso è quasi sempre la stella polare, facevano cose buone, buoni progetti, ma anche cose molto brutte come le aste a doppio o triplo ribasso, o l’apertura dei nuovi punti vendita finanziati dai fornitori (a proposito che fine ha fatto la direttiva sulle pratiche sleali, la recepiamo o no?).
Il sistema ortofrutta Italia è in una fase di stallo, di pesante arretramento. Prezzi bassi, export in continuo calo, boom dell’import, perdita di superfici, perdita di posti di lavoro, danni da cimice enormi e ancora senza una prospettiva di risarcimento, costo del lavoro fuori mercato, un sistema fiscale e burocratico oppressivo. Il tutto nell’indifferenza generale. Anche i settori più dinamici, come il biologico, hanno seri problemi di prezzo. Il 30 gennaio a Ferrara torneranno in piazza i trattori di Agrinsieme. Una grande impresa come Apofruit, solitamente molto prudente, in un incontro con la Bellanova a Scanzano Jonico ha parlato dell’ortofrutta come di “un settore in ginocchio, da rigenerare”.
Se continua così, se invece di spendere miliardi per salvare l’Alitalia o banche distrutte da amministratori fraudolenti, non pensiamo a rilanciare i consumi interni (altro che ‘Frutta nelle scuole’, anzi ‘Frutta straniera nelle scuole’), a lavorare sul serio sui nuovi mercati esteri, qui c’è il pericolo che fra un po’ manchi prodotto, anche quello che rappresenta il made in Italy nel mondo.
La sostenibilità, sia chiaro, è un grande progetto, una grande prospettiva. Ma bisogna capire bene chi ne paga il conto. L’impressione – e qui sta il trappolone – è che la fattura finirà a carico dei ‘soliti noti’, cioè le imprese produttive. Questa storia dell’obbligo dell’iscrizione alla “Rete del lavoro di qualità”, se non gestita con equilibrio e con sostanziali modifiche alla legge, finirà per far collassare un altro discreto numero di imprese medio-piccole che oggi tirano il fiato coi denti. E aprirà le porte a nuovo import. E poi voglio vedere i certificati “di filiera etica e responsabile” rilasciati dalle produzioni turche, nordafricane o anche spagnole…
*Direttore Corriere Ortofrutticolo
da: Corriere Ortofrutticolo, 17/1/2020