La biodiversità, nel senso più largo, è la somma di tutti i patrimoni genetici esistenti del mondo, considerata ai fini della conservazione, tanto delle espressioni naturali della vita quanto delle cultivar e delle razze di animali domestici. Un enorme concetto che unifica istanze settoriali già note per riproporle a chi non ha paura di pensare in grande e di scegliere gli obiettivi prioritari.
In senso più ristretto, la biodiversità è l’insieme delle specie vegetali e animali (indigene e compatibili con l’ambiente) che si vogliono far convivere in un ambito territoriale amministrativamente definito: per esempio, in un parco nazionale. Nel mirare a questo scopo le azioni sul campo condotte fino ad ora si estrinsecano nella sorveglianza, in censimenti e in monitoraggi.
Quasi tutte le nostre aree protette si trovano nella fascia altitudinale superiore a 800 -1000 mt, dove si concentrano boschi di alto fusto di proprietà pubblica e dove minore è il disturbo causato dalle colture e dalle urbanizzazioni. In questo ambito montano, molte specie di animali sono costrette, nelle stagioni avverse, a spostarsi fuori dai confini. Si aggiungono, poi, le ripercussioni delle passate gestioni che hanno favorito determinate specie con gli impianti di abete bianco o di abete rosso oppure con l’avviamento all’alto fusto dei cedui di faggio. Per questo, se si vuole incrementare la diversità, bisognerebbe provvedere spazio alle specie arboree rimaste marginali con impianti o con tagli di liberazione a loro favore.
Sembra invece assodata filosofia che lo sviluppo naturale debba essere l’unico arbitro di ogni futura distribuzione delle specie. I boschi non si tagliano oppure vi si praticano tagliate così piccole da permettere al loro interno solo 2-3 ore di sole al giorno. Tutto sommato si privilegia la copertura delle specie arboree, a detrimento delle erbe e degli arbusti capaci di dare riparo e alimento alla portata dei vertebrati terrestri. Non restano che i prati di altitudine oppure rimane il sottobosco, formato da graminacee e rosacee arbustive, dei boschi radi delle coste più assolate. Nelle più comuni faggete e abetine l’ombra e l’humus neutro accumulato favoriscono il sottobosco composto da poco appetite erbe più o meno nitrofile.
In seguito a questa inadeguata diversità di ecosistemi, ai cervidi non resta che farsi pendolari verso boschi e campi di proprietà privata fuori dall’area protetta. Per conseguenza, l’ente gestore ottiene la biodiversità esercitando una sorta di pascolo abusivo. La sistematicità del danneggiamento non è soddisfatta dal risarcimento dei danni perché non si tratta tanto di prezzo del foraggio mangiato quanto di incertezza e limitazione al godimento del diritto di proprietà. E’ un problema inutilmente discusso da 50 anni. I cervidi e i boschi di alto fusto insieme sono l’assodato e spettacolare simbolo della conservazione della natura nelle aree protette; ma all’atto pratico non vanno d’accordo. Per limitare le popolazioni di cervidi ci si affida al lupo il quale, però, trova meno faticoso far colazione con le pecore. Mica succederà che i pastori reagiscano con i bocconi avvelenati ammazzando, così, tutti i carnivori indiscriminatamente?
Un’alternativa sarebbe inventare una forma di selvicoltura meno fissata sull’assoluta copertura del bosco, ma più orientata alla diversità di ecosistemi e, quindi, più aperta a formare spazi di pascolamento interni alla riserva.
Su scala globale, il concetto di biodiversità è ampiamente logico e stimolante. A scala locale, nella gestione delle iniziative dimostrative è necessario procedere ad una gestione tecnica attiva e razionale, e superando le ideologie.