In questi giorni si è parlato dei danni che la tempesta di vento ha causato su una parte della pineta della Feniglia e dei mancati diradamenti previsti dal Piano di gestione elaborato per questa foresta nel 2005, da chi scrive e dal prof. Marziliano. In effetti le carenze degli interventi colturali risalgono a epoche ben più lontane.
I lavori di rimboschimento della Feniglia iniziarono nel 1911 ad opera dello Stato che aveva acquistato questa lingua di terra per ragioni idrogeologiche. Era accaduto infatti che il Comune di Orbetello nel 1804 aveva venduto la Feniglia ad alcuni privati che, in meno di un secolo, l’avevano quasi del tutto denudata dalla vegetazione (la Legge Serpieri R.D.3267/23 non ancora era stata scritta!!). Ciò aveva provocato la desertificazione della Feniglia e fenomeni di inpaludamento della laguna di Orbetello, dovuti con ogni probabilità al trasporto della sabbia ad opera del vento e del ruscellamento idrico, con serio pregiudizio per la salute degli abitanti (impaludamento voleva dire rischio di contrarre la malaria) e le attività economiche legate alla pesca.
Per questo motivo il Ministero LL.PP. procedette all’esproprio, mentre il rimboschimento fu affidato al Corpo Forestale dello Stato. Dato che i lavori furono iniziati nel 1911 e ultimati nel 1950, i soprassuoli più vecchi hanno superato i 100 anni mentre i più giovani ne hanno circa 70. L’esame del progetto rappresenta un manuale per il rimboschimento delle dune.
Il primo Piano di assestamento (C. Volpini 1950) individuò una fascia di protezione con Pino marittimo, Pino domestico, Ginepro e varie latifoglie a ridosso della fascia costiera, una compresa di Pino domestico per la produzione di pinoli (circa 320 ettari su 474 ha).
La gestione della Feniglia da parte dell’Ispettore Pepe, avvenuta prima dell’ultimo conflitto mondiale, ebbe le dovute cure colturali (sfolli e diradamenti) secondo gli studi e le conoscenze dell’epoca sulla coltivazione del Pino domestico per la produzione di pinoli. Mi piace ricordare la monografia di Biondi e Righini del 1910 che, per le pinete costiere della Toscana destinate alla produzione di pinoli, partendo da oltre 3500 piante per ettaro, prevedeva potature, sfolli e diradamenti che a 30 anni circa avrebbero dovuto portare la densità a circa 100 piante per ettaro (densità quasi definitiva). Lo stesso Pepe secondo una sperimentazione dettagliatamente documentata a 25-27 anni aveva, con frequenti diradamenti, ridotto il numero di piante a circa 250 piante per ettaro e 30 cm di diametro a m 1,30 dal colletto. Questo stesso Autore, nel valutare i risultati delle Sue esperienze, concluse raccomandando una selezione ancora più intensa allo scopo di stimolare maggiormente l’accrescimento del Pino domestico.
La Duna Feniglia è stata catalogata tra i biotopi di rilevante interesse vegetazionale da parte della Società Botanica Italiana; la Commissione per la Conservazione della Natura del CNR l’ha classificata tra i biotopi caratteristici della Macchia mediterranea; successivamente la Feniglia è stata iscritta nel libro nazionale dei boschi da seme. Con D.M. 26/7/1971 la Duna Feniglia è stata classificata tra le “riserve forestali di protezione per il suolo sabbioso e per le condizioni edafiche”.
Nonostante i suddetti importanti riconoscimenti, nonostante le esperienze effettuate in loco dal dott. Pepe e le prescrizioni relative a diradamenti contenute prima dal Piano del prof.Volpini del 1950, poi da quello di Cavalensi (1985-94), gli impianti eseguiti dopo il 1939 sono stati coltivati a densità di gran lunga superiori a quelle ritenute eccessive anni prima. Trentacinque anni fa, secondo lo studio also- dendro- auxometrico realizzato da chi scrive (La Marca, 1984), mediamente a 60 anni erano presenti ancora 258 piante per ettaro, ossia oltre il doppio di quelle che secondo Biondi e Righini avrebbero dovute essere presenti a meno di 30 anni e circa tre volte quelle che alla medesima età erano presenti nelle esperienze di Pepe! Naturalmente anche i parametri dendrometrici medi erano ben diversi da quelli che avrebbero dovuto essere a 30 anni secondo il modello di Biondi e Righini: vedi il diametro medio 20 cm, invece di 30 cm.
I popolamenti della Feniglia a 60 anni avevano ancora diametri medi pari a circa 34 cm e altezze medie di circa 15 m. Quello che più sorprendeva già nel 1984 relativamente alla densità dei soprassuoli era la ridotta profondità della chioma verde, limitata a pochi palchi sommitali della chioma. Quest’ultima, soprattutto nei soprassuoli più vecchi, in base ad analisi condotte sulle aree sperimentali in cui furono eseguiti i diradamenti, a distanza di anni mostrava una scarsa reazione incrementale.
L’analisi storica sulla crescita diametrica di un campione di piante mise in evidenza una crescita piuttosto sostenuta fino a circa 25-30 anni, superata detta soglia, per il persistere di densità eccessive, gli anelli incrementali progressivamente si infittivano sino a diventare negli ultimi anni percettibili soltanto con l’aiuto di una lente di ingrandimento.
Il citato studio del 1984 concludeva raccomandando la realizzazione di diradamenti regolari e intensi allo scopo di consentire uno sviluppo delle chiome consono al portamento di questa specie e, nel contempo, creare un gioco di luci e ombre idoneo all’affermazione della macchia mediterranea nel sottobosco e nelle parti in cui il Pino domestico aveva manifestato scarso adattamento. La messa in atto di queste poche regole di selvicoltura estetica (Geneau 1926; Schaeffer 1951, Klepac 1968) avrebbe contribuito a rendere più vario e accogliente il monotono, e per certi aspetti buio, ambiente della fustaia coetanea di domestico eccessivamente densa, con il suo intrico di rami morti lungo i fusti delle piante e una chioma ridotta a pochi rami verdi nella parte sommitale delle piante.
Ho letto una nota del dott. Vagniluca che attesta l’applicazione del Piano di gestione in questi ultimi 15 anni. Sicuramente sarà stato così, ciò non toglie che i danni che si sono verificati alla Feniglia potrebbero essere la conseguenza dell’inerzia nella gestione passata della pineta. Tutti sanno che esistono piante che reagiscono bene a interventi selvicolturali anche tardivi e piante che, una volta debilitate da una densità eccessiva, stentano a ristabilire condizioni strutturali ordinarie.
Non si deve però dimenticare che la stabilità fisico-meccanica delle piante, quindi il rischio di schianti (ossia di rotture a livello del fusto) ad opera di sollecitazioni da parte di agenti meteorici, dipende dall’equilibrio esistente tra dimensioni diametriche del fusto, dimensioni in altezza e porzioni di fusto coperte da chioma (% di chioma verde). Studi condotti in Italia in questo settore da chi scrive hanno stabilito per diverse specie forestali i rapporti critici di “snellezza” (rapporto H/D: la Marca 1983 e successive) intesi quali campanelli di allarme per arginare, quando ancora possibile, il rischio di schianti e migliorare gradualmente le condizioni di stabilità del bosco agendo in modo opportuno sulla densità. Quanto sopra nella consapevolezza che la reazione delle piante alla riduzione della densità è l’aumento del diametro e, in determinate condizioni, l’aumento della profondità della chioma. Ambedue questi fattori determinano un abbassamento del “rapporto di snellezza” e di conseguenza una maggiore stabilità delle piante. Ho avuto modo di affermare nei lavori che hanno portato alla definizione di detto indicatore di stabilità che, in presenza di soprassuoli coltivati a densità eccessiva il diradamento dapprima comporta un peggioramento delle condizioni di stabilità del soprassuolo, dovuto alla mancanza di mutuo sostegno tra le piante e all’azione del vento, la cui circolazione è facilitata dalla diminuita densità delle piante. Successivamente però, se non si verificano fenomeni metereologici di particolare gravità, la stabilità risulta accresciuta. Insomma se si opera in ritardo si deve essere consapevoli che i rischi di schianti aumentano immediatamente dopo e per un determinato periodo dopo il diradamento. Se non si interviene, invece, il rischio di schianti risulterà statisticamente sempre più elevato.
Per certi aspetti il bosco sottoposto a diradamenti tardivi si comporta come un malato colpito da una patologia che si sottopone a un intervento chirurgico. Immediatamente dopo l’intervento risulterà, con ogni probabilità, maggiormente esposto al rischio di subire gravi conseguenze rispetto a chi, colpito dalla stessa patologia, ha optato per il non intervento. Se però il paziente supererà il periodo di convalescenza, dovrebbe risultare maggiormente tutelato rispetto a una persona che non si è sottoposta alle cure mediche. Il bosco che fa registrare parametri di instabilità piuttosto gravi o deve essere rinnovato in anticipo oppure, attraverso interventi appropriati, viene prima esposto a rischi di danni più o meno gravi, nella prospettiva che, se supera il suddetto periodo critico, risulterà maggiormente resiliente ai danni da sollecitazioni. La decisione va presa sulla base dell’età del soprassuolo, dei valori di snellezza valutati su tutte le classi diametriche del popolamento e sulla base della percentuale di chioma delle piante. Valutazioni effettuate sulle dimensioni medie delle piante possono risultare fortemente fuorvianti.
Si tratta comunque di valutazioni statistiche che non escludono danni anche gravi dovuti ad eventi del tutto eccezionali contro i quali l’uomo può poco. Lo studio di ciò che è accaduto, l’analisi delle zone colpite in relazione alla storia recente e passata dei vari popolamenti, il tipo di danni, la loro dinamica potrebbe aiutare a capire maggiormente gli eventi occorsi e, soprattutto, potrebbe contribuire a prevenire, nei limiti del possibile, il ripetersi di questi episodi.
La figura sopra riporta la tendenza alla crescita delle temperature medie annue e quello inverso delle precipitazioni nel periodo 1960-2002.
Alcune ricerche condotte sulle pinete di domestico del litorale toscano (Gandolfo e Piussi 1998) hanno studiato le relazioni tra regime idrico del suolo e stato delle pinete costiere.
Diversi Autori hanno messo in relazione la scarsa longevità del Pino domestico quando viene allevato in formazioni boschive (e non allo stato isolato) Merendi (1931), de Philippis (1958), Biondi e Righini (1910). Per queste ragioni e per il fatto che le pinete della Feniglia erano caratterizzate dalla prevalenza di popolamenti adulti (il 93,5% avevano età comprese tra 61 e 90 anni).
Sarebbe come dire che in una popolazione di umani mancano praticamente del tutto i giovani e i bambini. Per questo il Piano di gestione del 2005 (la Marca e Marziliano) ha proposto il taglio di rinnovazione per superfici modeste tali da totalizzare circa un paio di ettari all’anno e una serie di iniziative che avrebbero potuto favorire una gestione partecipata (un museo della documentazione delle attività realizzate a partire dall’impianto della pineta con documentazione fotografica dell’epoca della produzione dei pinoli etc). Uno dei limiti era rappresentato dalle elevate densità della fauna selvatica (soprattutto daini) che imponevano costose opere di tutela delle giovani piantine dalle predazioni faunistiche. La necessità di procedere con i tagli di rinnovazione era dettata proprio per iniziare a porre un freno all’invecchiamento collettivo che, come è noto, aumenta il rischio di collassi altrettanto collettivi.
Concordo pienamente con il dott. Vagniluca che il luogo della discussione è il Posto e non i “post”.