Il caso dell’ex Ilva di Taranto, bruscamente al centro dell’attenzione della politica e dell’opinione pubblica, mentre scriviamo è ancora lontano da una soluzione accettabile. In questi giorni la sostanza del problema è nascosta, sopraffatta dall’infinità di parole spese per una narrazione che non è propedeutica a nessuna soluzione concreta a breve termine. Temiamo che si aprirà una complessa contesa giuridica che, qualunque ne sia l’esito, segnerà la fine di uno dei maggiori impianti del continente.
Al di là delle polemiche prontamente sviluppatesi ci sembra che il caso metta in evidenza due questioni generali. La prima consiste nel fatto che da più parti torna ad echeggiare un ritornello che pensavamo fosse ormai scomparso e dimenticato: l’invocazione di un pronto intervento di statalizzazione/nazionalizzazione dell’impresa da parte dell’Italia come garanzia del ristabilirsi di una situazione di funzionamento dell’impresa che sia efficace e cioè che consenta di conseguire gli scopi che la scelta politica si propone. La seconda è proprio la definizione di questi scopi che vengono ridotti all’alternativa fra proseguire nella produzione a qualsiasi costo, materiale e morale, oppure, all’opposto, chiudere l’impianto al fine della salute degli abitanti e dell’ambiente locale abbinando a ciò opere di disinquinamento, riqualificazione dell’area, avviamento di non meglio definite attività “green” secondo una linea politica che sembra trovare crescente consenso.
Quella delle nazionalizzazioni sembrava una strada ormai, e per sempre, abbandonata. Reca con sé l’amaro sapore di soluzioni di guerra, di autarchia, di politiche nazionaliste inefficienti ed inefficaci. Nel nostro paese ha condotto ad un’economia fortemente infiltrata dalla politica e dalla pressione di gruppi e settori. Raramente ha condotto a risultati economicamente positivi, scaricando i costi sul bilancio dello Stato e cioè, in ultima analisi, sui redditi dei cittadini. Alla base vi è la convinzione che lo Stato riesca a fare meglio dei privati nella produzione e vendita di beni e servizi. Sappiamo che non è così, tanto che dopo svariati decenni dalla nascita dell’Iri abbiamo proceduto a privatizzare le imprese pubbliche, scoprendo che quelle più redditizie operavano in settori regolati dallo Stato, mentre stentavano a sopravvivere quelle messe sul mercato.
Lo Stato imprenditore non funziona e, soprattutto, genera una forte confusione di ruoli e di responsabilità. La sua funzione imprenditoriale è impropria rispetto a quella di autorità che costruisce le diverse politiche. Riporta al tempo in cui, di fronte a certi fenomeni, ci si chiedeva, finalmente, perché lo Stato dovesse produrre automobili o panettoni, oltre a tutto in perdita e meno bene dei privati.
L’attuale ondata di consenso si inquadra, per paradosso data la diversa provenienza politica, in quella della ripresa del sovranismo e del protezionismo ed è forse sorretta dalle note oscillazioni che riscontriamo nella storia, ad esempio a proposito della liberalizzazione degli scambi.
Per la produzione il problema è disporre di imprenditori veri e sviluppare imprese efficienti che, nel caso specifico, riescano a conciliare le due finalità. Non è impossibile, perché anche nella stessa Europa ciò è avvenuto e avviene.
Questa vicenda presenta un forte parallelismo col dilemma che oggi si propone all’agricoltura. Da un lato le si richiede di proseguire nel suo insostituibile e millenario compito di produrre alimenti per un’umanità in aumento, con requisiti igienico sanitari più elevati e con consumi procapite crescenti, dall’altro di farlo con modalità obbligate. Il mito di un’agricoltura solo “raccontata” e apprezzata per sentito dire genera un’alternativa molto simile a quella di Taranto fra continuare a produrre con tutti i requisiti del caso, oppure cedere al fascino del mito senza fondamento di un ambiente che non esiste e di una modalità di produrre irreale. Con l’aggravante che i vincoli imposti in misura crescente implicano contrazione della produzione di alimenti, tecniche meno efficienti e costi più elevati.
Quanto basta per chiedersi se non si profili anche per l’agricoltura un futuro in cui per conciliare ambiente e produzione qualcuno proporrà la statalizzazione dell’agricoltura, ma anche qui storia ed economia hanno già dato una netta risposta.