Il cambiamento climatico e il diffondersi di patogeni esotici rendono l’agricoltura moderna più complessa, e il continuo insorgere di malattie resistenti ai trattamenti fitosanitari rende questa attività sempre meno remunerativa.
L’innovazione genetica fatica a rispondere a queste nuove problematiche, soprattutto a causa dei lunghi tempi di sperimentazione; ancora più difficile poi è la situazione italiana, dove gli organismi geneticamente modificati sono vietati, e quindi le varietà coltivate in tutto il mondo non sono disponibili.
Il miglioramento genetico tradizionale è una pratica piuttosto lunga e laboriosa: per creare una nuova varietà con particolari qualità, per esempio una cultivar di pomodoro resistente al Tomato Brown Rugose Fruit Virus (TOBRFV), sono necessari diversi passaggi. Innanzitutto bisogna identificare una varietà che porti il gene (o i geni) responsabili della resistenza. Queste varietà devono essere quindi testate, e poi incrociate con le cultivar d’interesse commerciale. Dopo una lunga serie d’incroci si seleziona progressivamente la prole con le caratteristiche di resistenza desiderate, e che più si avvicini agli standard richiesti dal mercato, affinandone le qualità generazione dopo generazione. Una volta ottenute queste nuove cultivar è necessario eseguire test sul campo per valutarne le caratteristiche in condizioni reali, e solo dopo questa fase è possibile immettere in commercio la nuova cultivar. Tutto questo processo può richiedere dieci anni o anche di più, e non sempre porta a risultati soddisfacenti.
Invece le tecniche più moderne di genome editing permettono di modificare solo i geni d’interesse, lasciando intatto tutto il resto del Dna e quindi le caratteristiche della cultivar originale, il che si traduce in un notevole risparmio di tempo. Certo, la resistenza sarà legata a pochi geni piuttosto che al pool di difese frutto del miglioramento tradizionale, ma il risultato è spesso più rapido da ottenere.
Eppure il miglioramento genetico tradizionale, opportunamente “potenziato” con le tecnologie più recenti continua a essere utilizzato in tutto il mondo.
È il caso dello speed breeding, una tecnica che si avvale di camere di coltivazione per velocizzare la crescita delle piante, ottenendo generazioni più brevi e velocizzando tutta quella fase d’incroci e rincroci, la più onerosa in termini di tempo. Le camere di coltivazione infatti garantiscono una luce continua per 22-24 ore al giorno, e sono mantenute in condizioni di temperatura e umidità controllata. Queste particolari condizioni, appositamente studiate per ogni specie vegetale e applicate come protocollo forzano le piante e le portano a crescere più velocemente, per ottenere cicli molto raccorciati. Fino a ora si sono ottenute punte di 6 cicli in un anno di frumento, orzo, cece e pisello, e 4 generazioni all’anno per colza e persino quinoa.
«In questi anni abbiamo progressivamente migliorato la tecnologia speed breeding, e adesso la utilizziamo abitualmente nei nostri programmi di breeding e per le nostre ricerche» evidenzia Lee Hickey alla conferenza TEDxUQ di Brisbane. Hickey e i suoi colleghi della University of Queensland hanno realizzato i primi protocolli per lo speed breeding, pubblicando i frutti della loro ricerca su Nature Plants.
Altri scienziati si sono occupati di migliorare questa tecnica, rendendola ancora più accessibile. Un team composto da diversi scienziati, in collaborazione con il John Innes Centre, ha semplificato e adattato i protocolli per camere di coltivazione più semplici e meno costose. Con serre dotate d’illuminazione Led supplementare e sensori di umidità e temperatura, oppure con delle camere di crescita “autocostruite” è possibile sfruttare la tecnologia speed breeding grazie ai software da loro sviluppati, disponibili gratuitamente per chiunque.
«Lo speed breeding può aiutare, ma è solo uno dei tanti strumenti a nostra disposizione per riuscire a sfamare i 10 miliardi di persone stimate nel 2050. Perciò abbiamo bisogno di tutti gli strumenti disponibili, comprese le biotecnologie. Se desideriamo meno chimica nelle nostre produzioni allora dobbiamo necessariamente rivoluzionare il nostro approccio al cibo geneticamente modificato» - ha sottolineato Hickey.
da: Terra e Vita, 22/10/2019