Il vino è un alimento e oggi prevalentemente un piacere nel quale si combinano diversi sentimenti, ma nella Roma antica c'è il vino della cena, della medicina, della religione e della seduzione. Il vino della cena è permesso a uomini e donne in misure e regole diverse come il vino medicinale, mentre il vino legato alle cerimonie religiose è concesso agli uomini che devono officiarle. Nella Roma repubblicana e fino ai primi secoli della nostra era vige lo Ius osculi che dà all'uomo e soprattutto al pater familias la facoltà di baciare una propria congiunta per accertare se avesse bevuto o meno del vino perché alle donne, per una legge che Dionigi di Alicarnasso fa risalire a Romolo, è interdetto il consumo del vino, un ultimo residuo di un'antica società matriarcale prima della sua sostituzione con il modello patriarcale che storicamente conosciamo. A Roma vige anche il vino della seduzione suscitatore di emozioni d’amore che nell’età di Augusto (44 a. C. – 14 d. C.) affascina i poeti da Tibullo, Properzio, Ovidio e Orazio, senza dimenticare Virgilio e poeti minori quali Lucano, Giovenale, Silio Italico, e Stazio.
Il periodo imperiale coincide con la massima produzione e diffusione dei vini prodotti in Italia e a Roma arrivano quelli più famosi di ogni parte dell’impero da Taso, Cos, Lesbo, Sicione, Cipro, Telmeso, Tripoli d’Asia, Beyrut libanese, Sebennys egiziana. Diversi scrittori latini si occupano di agricoltura scrivendo della vite e del vino: Marco Porcio Catone (234 a. C. – 149 a. C. ) nel De agri cultura si ferma a parlare delle manipolazioni del vino, Marco Terenzio Varrone (116 a. C. – 27 a. C.) nel De re rustica (37 – 36 a. C.) dettagliatamente considera la vite, l’uva e il vino, Lucio Giunio Moderato Columella (4 d. C. – 70 d. C.) scrive il De re rustica un trattato poetico di enologia e Gaio Plinio Secondo o Plinio il Vecchio (23 d. C. – 79 d. C.) dedica al vino un’intera sezione del XIV libro della Naturalis historia considerandolo un elemento che contribuisce in modo fondamentale all’economia romana. Sono i poeti elegiaci che abbinano il vino all’amore, ritenendolo un elemento indispensabile per accendere la passione durante gli incontri amorosi soprattutto al di fuori della cerchia familiare, divenendo un complice per sedurre una donna, eludere le ansie e vincere i timori che precedono un incontro amoroso, con diversi atteggiamenti come studiato dal letterato Prof. Aldo Luisi che nei suoi studi ha particolarmente indagato questo aspetto dai quali si ricava anche quanto segue.
Per Albio Tibullo (54 a. C. – 19 a. C.) tra i maggiori esponenti dell’elegia erotica il vino è capace di lenire ogni dolore amoroso: Adde merum vinoque novos compesce dolores / occupet ut fessi lumina victa sopor, / neu quisquam multo percussum tempora Baccho / excitet, infelix dum requiescit amor (versa ancora vino schietto e col vino caccia i recenti dolori, perché il sonno vinca e chiuda gli occhi di chi è stanco di piangere: nessun svegli l’uomo che ha la testa stordita per il troppo vino, finché l’amore infelice si quieti).
Sesto Properzio (47 a. C. – 15 a. C.) ricorda che il vino prima, durante e dopo gli incontri amorosi è strumento per placare le pene d’amore: hoc mihi, quod veteres custodit in ossibus ignis / funera sanabunt aut tua vina malum (il male che conserva nelle mie ossa l’antica fiamma, soltanto la morte o il tuo vino potranno sanarlo) e semper enim vacuos nox sobria torquet amantis / spesque timorque animos versat utroque modo (sempre una notte senza vino tortura gli amanti solitari, e speranza e timore fanno tumultuare l’anima in entrambi i casi). Questo poeta elegiaco non manca di ricordare che Phyllis Aventinae quaedam est vicina Danae / sobria grata parum: cum bibit omnia decet (vi è una certa Fillide che abita vicino al tempio di Diana, se non beve è restia, ma se beve si presta a tutto) e che altera Tarpeios est inter Teia lucos, / candida, sed potae non satis unus erit (ve ne è un’altra, Teia, che frequenta i boschi tarpei, splendida, ma da ebbra un solo uomo non le basta).
Publio Ovidio Nasone (43 a. C. – 17 d. C,) nell’Ars amatoria ricorda che il vino dispone l’animo all’amore (vina parant animos), mette in fuga gli affanni (cura fugit multo mero), che la notte, l’amore e il vino non inducono ad alcuna moderazione (nox et Amor vinumque nihil moderabile suadent) e che Venere col vino è fuoco aggiunto al fuoco (et Venus in vinis ignis in igne fuit). Nelle sue opere questo poeta ricorda che i banchetti offrono buoni approcci (dant etiam positis aditum convivia mensis) perché il vino dispone l’animo all’amore (vina parant animos) e dispone l’animo all’amore (vina parant animum Veneri).
Quinto Orazio Flacco (65 a. C. – 8 a. C.), uno dei maggiori poeti dell’età antica, affida al vino il compito di rallegrare e esaltare, rimuovere inquietudini e cancellare gli affanni, conferendo al convivio l’allegria e la spensieratezza che apre anche la strada a incontri amorosi. Orazio si rivela anche un fine intenditore di vini e nelle sue elegie cita quelli che ai suoi tempi sono i più apprezzati con particolare attenzione alle produzioni locali delle regioni latine e campane: il Cecubo che si produce nel Lazio meridionale tra Terracina e Formia, il Calerno di Cales tra Teano e Capua in Campania, il Falerno proveniente dalla Campania e il Massico prodotto sul monte omonimo vicino a Sinuessa l’odierna Mondragone, indicando anche le annate migliori, non dimenticando il Nomentum (Mentana), il Latiniensis, il Gabii, il Preneste (Palestrina), il Priverno, il Setino (di Sezze) e i vini di Pompei e di Napoli.