Nel rapporto ISPRA si chiarisce che per consumo di suolo si intende il suolo consumato a seguito di una variazione di copertura: da una copertura non artificiale a ad una artificiale. Il fenomeno appare in crescita, ma con un sensibile rallentamento nella velocità di trasformazione, a causa probabilmente della attuale congiuntura economica e, aggiunge il sottoscritto, non certo a un presunto aumento di una sensibilità verso i problemi ambientali o ai numerosi allarmi lanciati.
Oltre alle situazioni eclatanti di palese deturpazione del paesaggio o di opere realizzate senza la minima valutazione di impatto o di rispetto di una pianificazione territoriale, è evidente che il progressivo consumo di suolo significa una sua impermeabilizzazione. E’ intuitivo che, in occasione di eventi piovosi eccezionali, in conseguenza dei cambiamenti climatici in atto, la massa d’acqua che trova un ambiente impermeabilizzato non ha la possibilità di drenare e quindi si gonfia formando masse idriche, arricchite dai sedimenti asportati per erosione del suolo, sempre più consistenti che nel loro moto turbolento e impetuoso causano i disastri a cui troppo spesso assistiamo.
Ma veniamo ai numeri davvero inquietanti dell’ultimo rapporto nazionale ISPRA: il consumo di suolo nel 2018 continua a crescere in Italia e le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 51 chilometri quadrati di territorio, ovvero, in media, circa 14 ettari al giorno. Una velocità di trasformazione in linea con quella degli ultimi anni. Infatti tra il 2016 e il 2017 le nuove coperture artificiali hanno riguardato circa 5.200 ettari di territorio, ovvero in media poco più di 14 ettari al giorno: circa 2 metri quadrati di suolo sono stati persi irreversibilmente ogni secondo. Dopo aver toccato anche gli 8 metri quadrati al secondo degli anni 2000 e il rallentamento iniziato nel periodo 2008-2013 (tra i 6 e i 7 metri quadrati al secondo), il consumo di suolo si è consolidato negli ultimi tre anni. In sintesi, dagli anni '50 ad oggi, tale consumo è aumentato del 180% e così la superficie naturale in Italia si riduce ogni anno, aumentando gli effetti negativi sul territorio, sull'ambiente e sul paesaggio.
Questi dati, a dir poco allarmati, fanno il paio, fra l’altro, con la nuova edizione dell'Atlante mondiale della desertificazione (UE) dove si afferma che oltre il 75% delle terre emerse sono già degradate. L’Italia è perfettamente in questa media e tale degradazione è dovuta essenzialmente al non corretto uso del suolo legato, non solo, alle attività agroforestali, ma anche e soprattutto alle attività extra agricole. Pochissimi studi (Italiani, ma anche Europei) stimano il danno economico causato dalla perdita di una risorsa non rinnovabile come, appunto, il suolo, soprattutto in un’ottica di lungo termine. A questo proposito si può evidenziare come sia difficile conciliare la sostenibilità economica con quella ambientale. Infatti, le nuove tecnologie, l’uso di macchinari sempre più pesanti e potenti se da un lato hanno consentito un’accelerazione dei tempi di lavoro e un vantaggio economico dall’altro, operando su territori talvolta estremamente fragili, sia in ambienti agricoli sia forestali, hanno contribuito a compattare e degradare il suolo i cui danni però saranno ben più evidenti e valutabili nel lungo termine, fermo restando che il suolo è essenzialmente una risorsa non rinnovabile; per formare 1 centimetro di suolo occorrono dai 100 ai 1000 anni. L’erosione, ad esempio, supera mediamente di 30 volte il tasso di sostenibilità (erosione tollerabile).
Alla luce di questa continua perdita e degrado di una risorsa essenziale per l’umanità quale è il suolo, appunto, si imporrebbe, quindi, una pianificazione dell’uso del territorio che, partendo dalla completa conoscenza dei tipi di suolo, tenga conto degli impatti che determinati usi sia agricoli, sia extra agricoli dello stesso possono causare sull’ambiente, con particolare attenzione proprio ai processi idrologici e ai rapporti acqua-suolo. Ma allo stato attuale e alla luce dei dati sopra riportati e soprattutto del loro andamento che sembra inarrestabile, una domanda sorge spontanea: che senso ha continuare a parlare di sostenibilità ambientale o di protezione e conservazione dell’ambiente a beneficio delle future generazioni? L’attuale atteggiamento dell’opinione pubblica nel suo insieme (decisori politico-amministrativi inclusi) su queste problematiche sembra riassumersi nel titolo di una celeberrima canzone, icona di diverse generazioni: “Let It Be”, lascia che sia!