Con il termine “riscaldamento globale” si intende l’innalzamento della temperatura media della superficie del nostro pianeta, registrato negli ultimi decenni, secondo molti dovuto a cause non naturali. Con questa definizione si dà interamente all’uomo la colpa e la responsabilità di quanto sta succedendo. Non tutti gli “addetti ai lavori” sono d’accordo sul fatto che l’uomo sia l’unico responsabile del disastro. Comunque sia, agli effetti pratici, di chiunque sia la colpa, il pianeta che ci ospita sta diventando sempre più inospitale per noi, soprattutto a causa della sempre maggiore difficoltà di produrre e disporre degli alimenti necessari alla sopravvivenza di una popolazione mondiale che sta rapidamente marciando verso i dieci miliardi di individui, in modo drammaticamente accentuato nelle zone aride.
Per quanto riguarda le cause del riscaldamento, c’è un sostanziale accordo fra gli scienziati che indicano nell’aumento della concentrazione nell’atmosfera dei cosiddetti “gas serra” (anidride carbonica, metano, ossidi di azoto) e nella deforestazione, le cause principali.
Anche se le attività legate alla zootecnia, specie se intensiva, contribuiscono solo in minima parte alla produzione dei gas serra, esse sono spesso additate come attività da contrastare, specialmente da parte dei ben pensanti che vorrebbero far regredire l’evoluzione della nostra specie da specie omnivora a erbivora.
L’attività zootecnica sta risentendo pesantemente degli effetti del riscaldamento globale, sia per le maggiori difficoltà di produzione degli alimenti destinati agli allevamenti, sia per l’effetto negativo dello “stress termico” dei nostri animali.
A questo punto ci domandiamo: cosa possiamo fare per limitare il contributo negativo della zootecnia al problema del global warming? Anche se altri settori quali l’industria, per il 26%, o la produzione di energia elettrica, per il 38%, contribuiscono in maniera decisamente più pesante rispetto a tutte la attività agricole, che incidono per il 18% circa.
I gas serra, considerati i maggiori responsabili del fenomeno del riscaldamento globale sono l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4) e i gas azotati, il principale dei quali è il protossido di azoto (N2O). Dalla parte dell’industria zootecnica, se si adottano strategie finalizzate alla riduzione dei gas serra, si contribuisce, per quanto possibile, a limitare i danni.
L’origine quantitativamente più importante della CO2 è rappresentata dalla combustione dei carburanti fossili, ovvero da tutte le attività legate alla produzione di energia da fonti non rinnovabili e ai trasporti tradizionali (83%). Pertanto, le attività zootecniche c’entrano relativamente poco.
L’origine della produzione di metano è dovuta alle fermentazioni naturali dei carboidrati strutturali vegetali, del tipo cellulosa ed emicellulose, che avvengono nel digerente degli animali erbivori, dei ruminanti in particolare, e nelle colture come la risicoltura. In questo caso, si stima che la zootecnia non sia la maggior responsabile (35%).
L’ N2O, infine, deriva per il 65 % dagli allevamenti animali. Tutto il resto proviene dalle altre attività agricole. Ma bisogna considerare che fra queste altre attività dobbiamo mettere quelle legate alla produzione di foraggi e altri alimenti zootecnici, per cui, in questo caso, è difficile quantificare le responsabilità.
Delle stime grossolane ci informano che produrre un chilo di carne bovina corrisponde a percorrere 70 km con una automobile di media cilindrata, in termini di produzione di gas serra inquinanti, mentre produrre un litro di latte equivale a percorre 15 km, produrre un chilo di cane suina equivale a 18 km e produrre un chilo di carne di pollame corrisponde alla percorrenza di 9 km in macchina.
Lo stress termico viene definito come il disagio di un animale conseguente alla difficoltà di smaltire il calore metabolico corporeo, ovvero di mantenere l’omeotermia. Tale disagio, diretta conseguenza dell’aumento delle temperature medie ambientali nei mesi caldi, ha come conseguenza la riduzione delle prestazioni produttive degli animali in allevamento, con la conseguente diminuzione di rendimento. In altre parole, per avere le stesse prestazioni ottenibili da animali non stressati, si devono impiegare più animali, con la inevitabile conseguenza di aumentare i gas serra emessi. Siamo di fronte al famoso cane che si morde la coda: il riscaldamento stressa gli animali e fa aumentare la quantità di gas serra connessi alle produzioni zootecniche e i gas serra emessi in più aggravano ulteriormente il problema. Cosa possiamo fare? Non molto in effetti, ma qualcosa si può.
A parte l’ovvio e logico rimedio volto a raffrescare gli ambienti che ospitano gli animali attraverso la nebulizzazione di acqua o l’adozione di sistemi più o meno sofisticati di climatizzazione, è possibile agire su due direzioni: la selezione di tipi genetici che meglio tollerino le alte temperature e/o adottare strategie alimentari che riducano l’emissione di gas serra, sia da processi digestivi che di gestione dei reflui e dei liquami.
Non è la nostra “newsletter” l’occasione per entrare nei dettagli di cosa si è fatto e si debba ancora fare, sia nel settore del miglioramento genetico che in quello dell’adeguamento della qualità degli alimenti e delle diete per i nostri animali, ma è certamente l’occasione per attirare l’attenzione anche su questo argomento, segnalando il fatto che, se anche il contributo negativo delle attività zootecniche al riscaldamento globale è relativamente piccolo, pure è divenuto ormai imperativo fare qualcosa tutti insieme: il riscaldamento è “globale” e dobbiamo, per la nostra parte, fare di più ma, ormai necessariamente, agire “globalmente”, anche nella gestione delle attività volte alla produzione di alimenti di origine animale.