Si può competere con chi paga la manodopera 1 euro all’ora (Marocco)? Ovviamente no. Si può competere con chi la paga a 6,8 euro/ora (Spagna) mentre noi la paghiamo 11,1 euro? Quasi impossibile, infatti il gap tra il nostro export e quello spagnolo si è allargato a dismisura e la forbice continua a crescere. Si aggiunga poi che un addetto in Spagna costa 4000 euro in meno all’anno di oneri fiscali e previdenziali. E si aggiunga che non solo Spagna ma anche Paesi come Germania e Olanda ci fanno concorrenza in dumping in campo fiscale, previdenziale e ambientale. In pratica ci facciamo del male tra noi europei. Penso da sempre che l’allargamento dell’Europa ai Paesi dell’Est e Sud (Malta e Cipro) fatto così per decreto, senza una fase transitoria, un periodo di graduale adattamento, abbia contribuito a fare dell’Europa quel grande caos istituzionale con cui ci troviamo a fare i conti. Questi nuovi Paesi drenano risorse europee alla grande, come la Polonia che è il primo beneficiario dei fondi strutturali europei, con 86 miliardi di euro stanziati nella programmazione 2014-2020. In pratica siamo noi – che diamo a Bruxelles molto più di quello che riceviamo – a finanziare i nostri competitor. Si aggiunga poi che questi Paesi non solo ricevono fiumi di aiuti da Bruxelles, hanno molta meno burocrazia della nostra e costi produttivi infinitamente minori dei nostri. Quanto alle condizioni di lavoro… beh, meglio sorvolare. La nostra Rete del Lavoro Agricolo di Qualità è stata un mezzo fallimento. Sarebbe però curioso vedere come una misura del genere funzionerebbe in Romania, Bulgaria o in Polonia…ne vedremmo delle belle. In sostanza il costo del lavoro è uno dei principali fattori che sta mettendo fuori strada il sistema ortofrutta Italia, proprio perché è un sistema, come si dice, ‘labour intensive’ ad altissimo assorbimento di manodopera, mezzo milione di addetti, in pratica poco meno della metà degli addetti di tutto il comparto primario italiano.
A questo tema Italia Ortofrutta Unione Nazionale ha dedicato la sua recente assemblea con felice intuizione. Sono emersi dati finalmente nuovi – anche grazie all’analisi di Nomisma – sia nella relazione del direttore Vincenzo Falconi sia nel dibattito che è seguito tra addetti ai lavori (Coldiretti, Confagricoltura, e Conad, unica sigla della Grande distribuzione presente) e la sottosegretaria Alessandra Pesce. Quest’ultima, che pure ha dimostrato grande attivismo nel suo ruolo (era presente a Berlino, ma è mancata a Rimini al Macfrut), ha affrontato il tema costo del lavoro solo sotto l’aspetto della lotta al caporalato sorvolando sul tema più ampio della perdita di competitività delle imprese italiane, quella perdita che si è tradotta nel 2018 in 400 mila tonnellate di frutta perse sul fronte export e nell’import che ha superato (di poco) l’export (e il 2019 non è partito bene).
Si parla di caporalato, e giustamente, perché è una pratica infame che va combattuta in un Paese civile. Però l’ipocrisia dominante evita di dire che dietro i caporali ci sono le aziende agricole, e dietro le aziende agricole ci sono le catene del retail che strozzano le aziende con prezzi umilianti, pratiche sleali come le aste a doppio ribasso, ecc. Il presidente di Italia Ortofrutta Gennaro Velardo ha fatto la sintesi: “Un prodotto buono, etico, non può costare poco. E’ necessario far aumentare la percezione che produrre in un certo modo e ad un certo livello come facciamo in Italia ha un costo”. Ma questo costo evidentemente nessuno è disposto a pagarlo, e quindi si scarica sull’anello più debole della filiera – la produzione – che già si deve far carico di tutti i costi legati a qualità, sostenibilità, certificazione, tracciabilità ecc.
A chi vorrebbe tenere l’ortofrutta relegata nell’ambito delle commodities indistinte (nessuno lo dirà mai, ma molti lavorano proprio per questo) il settore sta reagendo elevando i suoi standard in termini di servizio al cliente, di prodotti innovativi, di sostenibilità a 360 gradi, di certificazioni di ogni tipo, di corsa al biologico mentre l’agricoltura integrata è già quasi uno standard. Sento anche parlare di frutta gourmet, anche se mi sembra che questa sia una vera fuga in avanti per un comparto che a malapena riesce a coprire i costi di produzione (poi, scusate, prima bisognerebbe far trovare la frutta nei ristoranti italiani, dove rimane la grande desaparecida). Si sta aprendo una campagna estiva piena di incognite che rischia di trasformarsi nell’ennesima guerra tra poveri che si sfidano sul mercato per pochi centesimi…
Orami il tempo è scaduto. Da anni stiamo girando attorno al nocciolo della questione: come ridare valore al prodotto in tempi di competizione globale. Escludendo che lo si possa fare per decreto governativo, bisogna stare sul mercato. E qui servono organizzazione e programmazione, due qualità in cui gli spagnoli eccellono (col supporto delle ‘loro’ istituzioni). Ma organizzazione e programmazione richiedono una forte aggregazione: anche il 60% non basta, se gli altri hanno l’80 per cento. Aggregazioni sulla carta forti, ma non ‘abbastanza grandi’, come dimostra la vicenda di Opera, rischiano di non funzionare. Poi bisognerà anche pensare a misure serie per rilanciare i consumi interni perché non si può campare solo di export.
Il caporalato è un tema importante, ma non è ‘il tema’. Il costo del lavoro va affrontato con misure realistiche magari con un contratto ad hoc per gli stagionali, con decreti flussi che non arrivino in ritardo, riformando i voucher oggi inapplicabili. Serve realismo, buon senso, una dose massiccia di riformismo, affrontare il tema di fondo: la perdita di competitività del sistema ortofrutta Italia. Se la politica “parla d’altro” spetta alle rappresentanze del settore (e la sede deve essere il Tavolo nazionale) indicare le priorità. Altrimenti continueremo a fare convegni, a lanciare allarmi, bla, bla bla…
(Editoriale del Corriere Ortofrutticolo, 14/6/2019)