Il cambiamento climatico è un tema complesso e rappresenta forse la principale sfida che la società mondiale dovrà affrontare nel prossimo futuro. Il progressivo aumento delle temperature (con stime per il 2050 di un incremento di 1,3-1,8 °C della media mondiale e di 2-3 °C di quella del sud dell’Europa), la riduzione delle risorse idriche disponibili (con drastici cali delle precipitazioni medie annue in termini di frequenza e intensità), il deterioramento qualitativo delle acque (ad esempio, progressiva salinizzazione delle falde, tossicità da metalli pesanti) e i crescenti problemi legati all’inquinamento dell’aria stanno causando ingenti danni in termini quali-quantitativi alle coltivazioni per la produzione di cibo, foraggio e mangimi. Alla luce di questa situazione, è necessario conoscere in che modo questo fenomeno incida sulle colture e sulle loro interazioni con agenti biotici. A tal proposito, il tradizionale “triangolo della malattia” (forma schematica per indicare i rapporti tra ospite suscettibile, patogeno virulento e condizioni ambientali favorevoli) può subire sostanziali modifiche, in particolare in relazione alla pressione che la componente “ambiente” può esercitare sul ciclo biologico della coltura (e di conseguenza sulla resa), oltre che sullo sviluppo e sul processo infettivo del patogeno stesso.
Numerosi studi confermano il ruolo determinante dell’ambiente (e più in generale del clima) nel definire la velocità di diffusione di una malattia nello spazio e nel tempo predisponendo, inoltre, nuovi ospiti all’attacco di microrganismi. Recentemente, particolare attenzione è stata rivolta al possibile impatto del cambiamento climatico sulla riproduzione e sulla crescita di alcuni funghi saprofiti e sulla conseguente produzione di micotossine. Queste sostanze sono metaboliti secondari di specie o ceppi differenti appartenenti alla stessa specie microbica; esse possono essere classificate, seppur in presenza di strutture chimiche estremamente eterogenee, in: aflatossine (prodotte soprattutto da
Aspergillus spp.), fumosinine, zearalenone e tricoteceni (da
Fusarium spp.). In letteratura, è noto che in specifiche aree geografiche e in presenza di particolari condizioni di temperatura e umidità (rispettivamente 15-40 °C e 70-99%), questi miceti proliferano in colture (principalmente di cereali) destinate alla produzione di alimenti e mangimi, sia in pieno campo che nelle successive fasi. In pre-raccolta, giocano ruoli-chiave (i) l’andamento climatico, (ii) il tipo di successioni effettuate, (iii) la scelta varietale, (iv) la suscettibilità della coltura, (v) la presenza di stress biotici (ad esempio l’infestazione da parte di larve di
Ostrinia nubilalis su mais favorisce gli attacchi di
Fusarium e
Aspergillus), e (v) le strategie di difesa messe in atto. Durante la raccolta, la conservazione, la trasformazione e la movimentazione, sono importanti altri fattori, quali epoca e modalità di raccolta, fase di maturazione, metodo di stoccaggio, presenza di cariossidi lesionate, grado di umidità delle granaglie.
Il cambiamento climatico potrebbe influenzare le comunità fungine modificando (i) direttamente il tasso di formazione delle micotossine senza indurre alterazioni a livello strutturale, o (ii) indirettamente, con conseguenze negative sulla loro distribuzione e diffusione. Inoltre, questo fenomeno potrebbe non solo provocare mutazioni genetiche nel DNA, ma anche favorire la differenziazione di nuovi microrganismi. In particolare, è ormai noto che numerose micotossine hanno una spiccata attività mutagena.
Appare evidente che la contaminazione da micotossine sia da considerarsi un problema socio-sanitario globale strettamente correlato al cambiamento climatico, che rappresenta un elemento chiave per lo sviluppo fungino, la presenza e la produzione di metaboliti secondari tossici per l’uomo e gli animali, con evidenti ricadute negative che si estendono all’ambito alimentare e zootecnico. Lo scenario che si viene a delineare risulta essere complesso e multidisciplinare, con ripercussioni in termini di disponibilità di alimenti e di mangimi a livello spaziale, temporale, conoscitivo, etico ed economico. Solo una visione globale della filiera che coinvolga competenze di tipo agronomico, climatologico, fitopatologico, entomologico, chimico, molecolare, zootecnico, nutrizionale, medico e ingegneristico può consentire un approccio gestionale sistemico. In questo modo, si può mirare a una corretta valutazione e gestione del rischio delle micotossine.
Vista l’entità della problematica presente e soprattutto futura (si stima che un aumento della temperatura di 2 °C da qui al 2050 potrà incrementare di oltre il 50% il rischio di contaminazione da micotossine nell’areale Mediterraneo, con conseguenti superamenti dei limiti di sicurezza imposti dalle autorità sanitarie comunitarie), numerose ricerche sono in corso allo scopo di individuare e definire nuove tecniche di contenimento e d’intervento. In base agli studi condotti sinora, sviluppare sistemi di previsione per questo fenomeno è risultato complesso, a causa della numerosità e dell’eterogeneità dei fattori agronomici coinvolti. Tali condizioni, infatti, sono difficili da quantificare matematicamente e, pertanto, i modelli disponibili sono costruiti considerando l’andamento meteorologico come il fattore con maggiore influenza sulla crescita dei funghi in pieno campo. Per questo motivo, la prevenzione rappresenta il metodo più efficace che può essere applicato in tre distinte fasi operative della filiera di produzione degli alimenti o dei mangimi. In pre-raccolta, una corretta scelta del materiale vegetale (ad esempio varietà resistenti alla colonizzazione da parte di funghi tossigeni o allo stress idrico) e l’applicazione di idonee pratiche agronomiche (ad esempio avvicendamenti colturali, fertilizzazione, contrasto alle infestanti, trattamenti antiparassitari) sono da considerarsi ottime strategie preventive. Analogamente, l’individuazione di un’epoca di raccolta che anticipi il verificarsi di condizioni ambientali favorevoli alla produzione di micotossine (ad esempio prima che si registrino valori massimi giornalieri di temperatura superiori a 30 °C) rappresenta uno dei principali mezzi di prevenzione. In post-raccolta un corretto stoccaggio (ad esempio scelta di ambienti di conservazione in cui le concentrazioni di ossigeno risultino inferiori all’1%) e una rapida essiccazione (così da ridurre il contenuto d’acqua e i livelli d’umidità) possono evitare l’insorgenza di fattori predisponenti lo sviluppo fungino e la conseguente contaminazione. Nel caso in cui fosse necessario intervenire sul materiale già contaminato, sarebbe possibile, almeno teoricamente, ricorrere a sistemi di decontaminazione (quali pulitura e separazione meccanica, lavatura, macinazione a umido) e detossificazione mediante l’impiego di mezzi fisici (ad esempio inattivazione termica, cottura e tostatura a infrarossi) e biologici (ad esempio microrganismi non patogeni in grado di degradare e/o trasformare a livello enzimatico le micotossine, ceppi non tossigeni che risultano essere competitivi nei confronti di quelli produttori di micotossine) che consentirebbero l’eliminazione diretta dal prodotto di questi composti. Tuttavia, tali operazioni risultano costose e di non facile applicazione. In pratica, oggi, in presenza di una partita contaminata non resta che la distruzione, magari con utilizzo a biomassa energetica.
A oggi, OMS e FAO hanno elaborato un codice di buone pratiche allo scopo di uniformare il controllo e la gestione della contaminazione da micotossine, così da proteggere la salute del consumatore, salvaguardare il reddito degli agricoltori, tutelare il benessere animale ed enfatizzare la gestione di filiera nel rispetto dell’ambiente, oltre che assicurare la correttezza degli scambi internazionali. Appare evidente come si debba rivolgere particolare attenzione alle possibili implicazioni del cambiamento climatico sulla sicurezza degli alimenti e dei mangimi nel medio-lungo termine. Approfondire e migliorare le conoscenze circa questa tematica risulta di primaria importanza allo scopo di valutare e gestire il rischio di presenti e future contaminazioni. Questo è l’obiettivo di “CO.MICO”, un progetto di ricerca d’ateneo del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa che prevede il coinvolgimento di esperti di zootecnia, meccanica e idrologia agraria, patologia vegetale ed economia agraria. Verranno valutati i livelli di contaminazione da micotossine nel mais lungo tutti i segmenti del processo di produzione dell’insilato in due distinti sistemi colturali (convenzionale e biologico) allo scopo di (i) stimarne le cinetiche di accumulo, (ii) quantificare l’effetto della tipologia di conduzione in relazione al carico iniziale di contaminante del trinciato di mais destinato all’insilamento e (iii) analizzare le implicazioni economiche e gestionali legate alle pratiche di riduzione e/o contenimento di micotossine.