Il trattato De natura plantarum di Linneo aprì la speranza di potere avere, a partire dal 1 maggio 1753, una nomenclatura delle piante di generale accettazione. La questione interessa tutta la filiera della produzione vegetale e oggi ha preso rilevanza anche per l’applicazione della legislazione ambientale.Presto, tuttavia, sono emerse delle difficoltà.
Contestualmente all’Unità d’Italia, si volle fornire alle guardie forestali un prontuario fra i nomi scientifici e i nomi delle piante nei dialetti delle varie regioni. Il manuale fu stampato nel 1873 ma al momento della rilegatura ci si accorse che nel frattempo molti nomi scientifici erano cambiati e così le copie sfascicolate finirono abbandonate nei depositi del Corpo Forestale. Alla metà dell’Ottocento, ci fu una profonda revisione dei nomi originariamente attribuiti da Linneo. Dal genere Pinus derivarono i generi Picea, Abies e Larix; le rosacee legnose (Pyrus, Crataegus e Sorbus) ebbero una risistemazione; gli ontani vennero separati dalle betulle, e così via. Non mancarono, poi, altri cambiamenti: il castagno da Castanea vesca passò a Castanea sativa.
Dal canto suo Darwin, ponendo il dubbio sulla stabilità della specie, poneva automaticamente in questione anche la stabilità dei nomi. Questo indispettì gli agricoltori inglesi e fu detto che, anche se si trattava di cose vere, Darwin avrebbe fatto meglio a tenersele per sé!
Nel 1929 le specie vegetali presenti in Italia secondo la Flora Analitica di Adriano Fiori erano 3.877; con la Flora d’Italia del Pignatti (1982) le specie diventarono 5.599; con la Chek List di Conti ed altri (2005) sono diventate 6.711; in 76 anni c’è stato un incremento medio annuo di 37 nuove specie. Si potrebbe dire che queste entrate vanno a sostituire validamente le specie a rischio di estinzione.
Purtroppo, però, queste modifiche hanno un’altra origine. Ci sono, invero, casi significativi come la scoperta di Zelkova sicula e come il ritrovamento di Juniperus thurifera nel territorio italiano, ma gran parte dell’aumento del numero delle specie è dovuto all’applicazione di criteri di classificazione che danno valore sistematico a differenze minime o incerte, anche su caratteri diversi da quelli morfologici. Emblematico è il caso di Rubus fruticosus (il comune rovo che produce le more) smembrato in ben 38 specie che è impossibile distinguere l’una dall’altra senza una analisi di laboratorio. Come fa un produttore di marmellata di more a certificare l’origine del suo prodotto specificando (come impone la legge) il nome scientifico della specie vegetale da cui ha tratto il suo prodotto?
Le leggi relative alle specie protette si basano sui nomi scientifici ma se, poi, viene cambiato un nome sorge il rischio che quella specie non sia più protetta finché la legge non sarà aggiornata. L’ipotesi non è tanto peregrina se si pensa che gli elenchi di specie protette espressi in leggi regionali sono molto generosi: 390 specie per il Molise.
I nomi delle cultivar sono sottoposti al Codice di Nomenclatura Orticola che dà maggiori garanzie e, d’altra parte, spesso interviene il brevetto. Resta il problema della specificazione del nome scientifico della specie d’origine. Viene da domandarsi come ci si comporta quando una specie con numerose cultivar viene suddivisa in base a caratteri morfologici che la selezione colturale ha reso non evidenti.
Giustamente i botanici dicono che la classificazione è per loro uno strumento di ricerca scientifica che mira ad evidenziare anche le piccole differenze. Nella vita pratica, però, i nomi delle specie vegetali possono venire ad avere un valore legale. Qui sta il problema.