L’articolo apparso la scorsa settimana a firma di Amedeo Alpi –
La grande nebulosa del “vero o falso” ha inglobato anche la Scienza – ha messo il dito nella piaga. Con la sensibilità e l’esperienza da appassionato uomo di Scienza, Amedeo ha raccolto le sollecitazioni di due sociologi di Stanford: è ormai un dato di fatto che il cambiamento epocale che sta attraversando il nostro mondo ha travolto anche quello che sembrava inviolabile baluardo del “vero”, la verità “scientifica”. Il “rapporto fiduciario” che per secoli ha tributato alla prova scientifica il sigillo di inoppugnabilità non esiste più nell’opinione comune e la “polarizzazione ideal-politica” che occupa l’intero spazio del vivere civile ha ormai oltrepassato la soglia anche della dimostrazione sperimentale.
Credo che l’invito di Alpi a non trascurare questi nuovi fenomeni sia fondamentale. Mi permetto perciò di raccogliere la sollecitazione, condividendo qualche osservazione per allargare la discussione. Sono uno storico e mi è quasi inevitabile riformulare il problema da un altro punto di vista, che cerco di esprimere attraverso alcuni interrogativi. Mi domando ad esempio: al di là degli (incalcolabili) effetti dei nuovi strumenti di comunicazione – i citati social media – che cosa ci segnalano questi nuovi crescenti fenomeni? È sufficiente una controinformazione adeguata? Basta reclamare le prerogative delle “verità scientifiche”?
Comincio dicendo che le forme di manipolazione esistono da quando esiste il mondo. Del resto, se a detta di molti gli animali sono come gli uomini, in realtà c’è almeno qualcosa che distingue gli esseri umani: sanno mentire. Il Novecento è stato certamente l’apogeo delle falsificazioni, ampiamente documentato dalla famosa fattoria di George Orwell. Tuttavia, ciò che abbiamo riscontrato è che il falso deve sembrare vero, come sanno bene i falsari. La virtù del falso sta proprio nella sua verosimiglianza, nel suo riflettere le aspettative generalmente condivise.
L’osservazione apre così a nuove domande. Perché dunque hanno una certa presa le informazioni false quando parliamo di innovazione scientifica nei vari settori (che non sto qui a elencare ma che tutti ben conosciamo)? Non è forse l’emergere di un inestirpabile attaccamento dell’uomo non solo al “vero” ma anche al “giusto”, a ciò che corrisponde a un comportamento socialmente accettabile? In questo caso, quando la comunicazione si impegna in un dialogo con il vasto pubblico, non è sufficiente la sola enunciazione di una verità accertata, o “scientificamente” dimostrata, se rimane isolata o insensibile ad altre aspettative che il vivere civile esige.
Come mostrano gli studi di argomentazione, ogni comunicazione non si esaurisce nella sola enunciazione di dati, ma questi vengono messi in relazione, da parte dei destinatari, con opinioni condivise che ne orientano l’interpretazione. È proprio questo il campo che segnala la crisi della nostra epoca, come osservava con acuta sensibilità Papa Benedetto XVI quando pochi anni fa ha parlato del “crollo delle evidenze”. Valori un tempo comunemente condivisi – come “libertà”, “democrazia”, “progresso” – hanno perso il loro significato e devono continuamente essere riproposti, ricostruiti, contestualizzati storicamente.
Faccio un piccolo esempio. Mio nonno viveva di castagni e pecore, ma divenuto vecchio lasciò il suo gregge e un giorno si recò nel bosco con il suo cane, a cui era legato da una vita, e fece ritorno da solo. Che fine abbia fatto il cane è stata una domanda che mi ha interrogato quando ero piccolo. Ma ciò di cui sono sicuro è che se racconto questo episodio (un dato correttamente ricostruito) in un’aula di miei studenti del XXI secolo, qualcuno potrebbe pensare di avere come docente il nipote di un assassino!
Ritornando alle preziose note di Amedeo Alpi, credo che l’impegno del mondo scientifico sia quello di non trascurare queste necessarie connessioni della comunicazione: non basta la completezza dei dati, occorre anche avere accuratezza verso il contesto e gli interlocutori, impegnandosi continuamente a ricostruire valori comuni che non possiamo dare per scontati. Se in questo contesto di crisi possiamo individuare occasioni positive di crescita, credo che vi sia certamente la necessità di recuperare un dialogo costante tra settori che tradizionalmente abbiamo distinto in “umanistici” e “scientifici”.
Concludo così con una nota. Il motto “provando e riprovando”, divenuto emblema del metodo sperimentale dell’Accademia del Cimento, viene oggi ripetuto dimenticando l’originale dantesco. Nella lingua di Dante, infatti, «provando e riprovando» (Par III, 3) riguarda il ragionare argomentando, che significa dar prova del vero (
provando) e confutare il falso (
riprovando, “disapprovando”) in dialogo con gli altri. Argomentare è la ragione applicata alla vita nelle sue dimensioni conoscitiva e pragmatica e opera – non solo ma anche e tipicamente – nell’ambito di ciò che potrebbe stare anche in un altro modo, di ciò che può essere cambiato (migliorato o distrutto) dall’agire degli uomini.
Credo che in questo recupero dell’unità della ragione “umanistica” e “scientifica” risieda una delle maggiori sfide della nostra epoca da affrontare con atteggiamento positivo. Direi anzi che si tratta di un’appassionata avventura, a cui proprio l’Accademia dei Georgofili ha dato largo spazio in tutta la sua plurisecolare storia.