La vicenda del
Made in Italy o, meglio, del Made in Veneto, nel Lazio o in Molise, e l’atteggiamento della Commissione dell’Unione europea
richiedono qualche parola di commento e, se lo si consente, un
suggerimento, tanto più credibile perché proviene da chi ha da sempre
sostenuto che non è ragionevole, al di là delle DOP, IGP e dei tanti altri
segni distintivi riconosciuti dal diritto dell’UE, creare nuove indicazioni
d’origine; ed in linea astratta sono ancora convinto che questa sia la
soluzione giusta.
Ma il mondo non finisce ai confini europei, né l’Unione ha la forza
giuridica – e certo neppure quella diplomatica, per tacer d’altro – per far valere le sue ragioni; e così si assiste a un pullulare di marchi,
marchietti, bandierine tricolori, paesaggi napoletani e millanta altri segni
distintivi utilizzati da cinesi, nordcoreani, giapponesi, thailandesi e così
via – sono compresi anche, ed in prima linea, gli statunitensi – che
lasciano credere ai consumatori di tutto il mondo che comprando quei
prodotti, si mangi e beva “italiano”, ma anche si vesta e si usino auto
“italiane” grazie allo sfoggio, addirittura, di nomi propri di persona italiani
applicati ad una berlina prodotta in estremo oriente.
Se in questo ultimo caso il richiamo è subdolo, ma non completo, dato che la casa produttrice dell’autoveicolo è palesemente orientale – si sfrutta solo la nomea che Ferrari, Lamborghini, Alfa Romeo hanno o hanno avuto nel mondo – nel caso dei cibi l’inganno è molto più efficace, poiché la somma delle informazioni fornite in etichetta lasciano credere una origine che non c’è, o, quanto meno, richiamano uno stile di vita che è italiano anche grazie ai suoi alimenti, ma che italiano non è.
Giunti a questo punto, data l’impotenza dell’UE a far valere i diritti dei
produttori occorre che la Commissione, che pure parla tanto di tracciabilità, di informazione corretta e completa del trasformatore,
consenta, pur con tutte le cautele necessarie per evitare truffe o altri
imbrogli, la creazione di marchi regionali o, comunque, di altri segni
distintivi che evidenzino sempre più l’origine del prodotto, in specie
alimentare, fondata vuoi sulla territorialità della materia prima vuoi sulle
tecniche usate, che sono italiane anche quando per porle in essere si
utilizzano macchinari stranieri.
È la storica sapienza dei nostri produttori che va evidenziata, e se
qualcuno fallirà nell’impresa, molti invece saranno quelli che avranno
successo. Ovviamente non credo che tali segni distintivi avranno la
capacità di imporsi, salvo qualche raro caso, nel mercato allargato; ma
allora, che timore si ha a permetterne l’uso?
Da:
Rivista di diritto alimentare 3/2012
Foto: www.italiaatavola.net