La lunga controversia fra il Governo italiano e le Istituzioni europee non è ancora conclusa e quindi non si conoscono vinti e vincitori, dunque conviene attenderne l’esito. Potremmo chiudere così, senza grandi rimpianti, rinviando le osservazioni a quel momento. Per capire meglio le cause del conflitto vorremmo tornare ad una notizia del mese scorso. Dal 1973 esiste un sondaggio permanente organizzato dalle Istituzioni dell’Ue che registra gli umori della popolazione europea sulle principali questioni. Il sondaggio raccoglie opinioni e tendenze nei singoli paesi e li confronta, registrandone l’evoluzione. L’ultimo è stato fatto a sette mesi dalle elezioni per il Parlamento Europeo (PE) che si terranno a maggio. I risultati indicano che gli Italiani sono i meno soddisfatti dell’Ue. Solo il 43% ritiene che l’Italia ne abbia tratto vantaggi mentre il 45% è di parere contrario. Il dato sorprende: eravamo fra i più europeisti e ora siamo in coda, la media europea è rispettivamente del 68% e del 24%. Ma non stupisce, già da alcuni anni il consenso verso l’Europa calava. I dati contengono almeno due altre sorprese. La prima è che in Italia il gradimento per l’euro è alto, al 65%, superiore alla media Ue di 61% e da aprile è cresciuto del 4%. La seconda riguarda la domanda se l’appartenenza all’Ue sia un bene. La risposta trova il 42% di favorevoli contro 18% di contrari e 37% di incerti. Nel 2014, all’epoca delle precedenti elezioni europee, accadeva il contrario: il giudizio sulla soddisfazione per l’Ue era positivo, mentre quello sull’euro era negativo.
Il malcontento ha radici lontane e motivazioni forse confuse, ma le soluzioni più drastiche talvolta indicate, come l’uscita dall’Ue o dall’euro o da entrambi, vengono considerate un male peggiore. Sembra quasi che gli strali dell’opinione pubblica si scarichino su un soggetto poco conosciuto e lontano, ma, tutto sommato, non eliminabile, identificato genericamente con l’Europa. Allora era l’euro, oggi in maniera poco chiara l’Ue o, spesso, “i burocrati” che la governano. Ciò è impossibile, questi infatti, forse con ridotta creatività, applicano quello che i politici inviati dagli Stati membri a Bruxelles o eletti al PE decidono secondo procedure definite da Trattati internazionali e da regole interne. Ogni decisione nasce da votazioni per lo più unanimi. Dunque non ha senso dire che l’Europa o Bruxelles “impongono”, “vietano”, “costringono” e così via. Chi lo dice di solito lo sa, ma trova più comodo ed efficace esprimersi in un modo improprio. Tutto ciò che secondo questa interpretazione distorta ci verrebbe imposto risponde a procedure codificate e consolidate che l’Italia ha approvato a suo tempo e che non lasciano spazio a comportamenti emotivi o discrezionali.
In tutto ciò vi è un vizio d’origine che riguarda le aspettative nei confronti dell’Ue. Prendiamo ad esempio la nascita dell’euro e dell’Unione economica e monetaria oggi al centro delle discussioni.
Al di là delle aspettative economiche su cui era generale il consenso, al momento della decisione in Italia si fronteggiavano due posizioni. Gli uni sostenevano che prima si sarebbero dovuti mettere in ordine i conti pubblici e solo in seguito aderire. Gli altri che, raggiunti i requisiti minimi, sarebbe stato opportuno farlo subito, in modo tale che il rispetto del vincolo di appartenenza e gli altri partner ci spingessero al rispetto delle regole. Questa posizione prevalse proprio fra coloro che guidarono la nostra scalata ai parametri di Maastricht e che non ne fecero mistero. Sappiamo come poi siano andate le cose e come, in modo beffardo, i fatti abbiano rovesciato le intenzioni consentendo il ricorso al facile pretesto degli obblighi imposti dall’Europa.