Quello che gli scienziati (a volte) dimenticano

di Paolo Nanni
  • 04 March 2020

L’articolo apparso la scorsa settimana a firma del Presidente dei Georgofili Massimo Vincenzini – I Georgofili e l’agricoltura – ha riproposto con benevola fermezza un punto essenziale della storia dei Georgofili. Fin dal primo secolo di attività, quando il progredire delle scienze e tecniche applicate all’agricoltura aprirono un grande divario nei confronti delle secolari pratiche in uso nelle campagne, l’Accademia dei Georgofili assunse una posizione che mantiene un certo interesse. Di fronte a quanti tendevano a identificare la “scienza” (e la specializzazione scientifica) come il nuovo paradigma del secolo anche in campo agricolo, i Georgofili non abbandonarono mai la consapevolezza che l’agricoltura è anche “arte”, ovvero il saper fare pratico o quello che oggi chiamiamo direzione aziendale. In quel binomio di “scienza e arte” stava la sintesi del metodo dei Georgofili. Un metodo inclusivo dei saperi umanistici e scientifici. Citerò dunque qualche esempio significativo.
Alla vigilia del primo secolo di attività, l’annuale relazione fu tenuta da Marco Tabarrini che, vale la pena ricordare, era al tempo sia segretario degli Atti dei Georgofili, sia Accademico della Crusca. In quell’occasione, il letterato georgofilo non poté trattenere il felice riconoscimento tributato ai Georgofili di aver fatto argine a un «moderno sofisma». Illustrando gli avanzamenti negli studi agrari, nelle scienze fisiche applicate all’agricoltura, nella pubblica economia e nelle scienze morali e politiche «senza di che l’economia non è altro che l’aritmetica del tornaconto», aveva soprattutto riconosciuto l’impegno ad arginare quella frantumazione del sapere che «d’ogni singola scienza volle far centro allo scibile». Varrà ricordare che “sofisma” significa, secondo la tradizione aristotelica, lo strumento di coloro che perseguono l’intento di apparire sapienti non di esserlo. E in che modo i Georgofili avevano operato? Coordinando i propri studi al «fine supremo della pubblica utilità, che è l’antica divisa della nostra Accademia» e conservando la «bella caratteristica del sapere italico … essenzialmente sintetico», che «dalle varie scienze fece discendere il gran concetto della verità intelligibile».
Rileggere questi passi oggi stimola una riflessione. Che cosa significa e che peso ha quel concetto di “verità intelligibile”? Naturalmente significa conoscibile, attraverso i vari metodi della ragione nei diversi campi. Vorrei tuttavia sottolineare che un “vero” accessibile dall’intelletto significa anche che esso sia qualcosa di comunicabile, direi quasi un bene scambiabile in una interazione tra interlocutori di un dialogo. E a conferma di questo compito essenziale delle «Accademie nei paesi liberi», Ubaldino Peruzzi affermava nel 1878: «apparecchiare lo studio delle questioni in una atmosfera serena e tranquilla innanzi che esse sieno portate nella turbinosa atmosfera parlamentare». Ed è forse proprio su questo punto che il mondo della Scienza dovrebbe interrogarsi.
Il sapere scientifico acquisisce evidenze attraverso metodi rigorosi e condivisi nell’ambito dei propri campi di ricerca. Ma quando queste acquisizioni escono fuori dai laboratori, la Scienza non deve dimenticarsi di un compito sociale e civile che le appartiene. Ovvero l’impegno a dialogare con altri mondi che rappresentano altrettanti portatori di interessi. In fatto di agricoltura e alimentazione, ad esempio, significa interagire con il mondo delle imprese e della politica, così come con il vasto pubblico che compone la società, con le sue aspettative e necessità.
Accettare questo dialogo è un impegno non facile. Significa ad esempio spiegare fenomeni in modo comprensibile, offrire elementi corretti per consentire una libera valutazione critica (anche quando si tratta di scegliere un prodotto), informare in una modalità adeguata agli interlocutori e ai contesti (anche se si tratta semplicemente di chiarire che lavarsi le mani serve più di improbabili mascherine in caso di epidemie). Ma soprattutto significa non screditare nessun potenziale interlocutore, facendo altrimenti della Scienza, che rifugge il sapere dogmatico, un nuovo dogma. (Preciserò che “dogma”, deriva da dokéo, ovvero “ritenere” da parte di un’autorità). Ma già i maestri medievali – che per inciso forse non erano proprio al “buio” –, avevano ben chiaro che argumentum ex auctoritate infirmissimum est.
Aggiungo una notazione finale. Il citato intervento del Presidente dei Georgofili ha rinnovato non solo lontani dibattiti ottocenteschi, ma ha rimesso al centro anche il compito civile della nostra Accademia, che rappresenta una delle consegne più importanti di Franco Scaramuzzi. Senza aggiungere postille, mi limito a riportare le parole del nostro Presidente Onorario apparse proprio su “Georgofili.Info”: «Le idee e le valutazioni da chiunque espresse, anche da noi, possono essere giustamente considerate soggettive e discutibili, giacché il rapporto di ciascuno con la realtà che ci circonda può essere diverso, a seconda delle circostanze e delle personali sensibilità. Ma proprio per questo bisogna cercare di superare i limiti individuali dialogando con tutti. Dobbiamo essere consapevoli che non comunicare è come non esistere. Dialogando, invece, si comunica e si ha anche la possibilità di confrontare ciò che si sa e ciò che si pensa».

Immagine: Giornale Agrario Toscano, Vol. 2 - 1828,  Tav. VIII (particolare)