Import-export, riflessioni sul caso Nutella

di Dario Casati
  • 18 December 2019

Nel profluvio di parole che accompagnano le nostre giornate in questi giorni, alla fine di un anno particolarmente convulso e confuso per il nostro Paese sbuca all’improvviso il problema dell’origine delle nocciole, ingrediente chiave di un prodotto alimentare molto noto, la Nutella. L’Italia scopre che le nocciole sono in gran parte di importazione. Nasce il caso. Il Paese attonito si ferma, colpito dalla rivelazione. Del caso si impadronisce subito la politica che evidentemente non ha nulla di più urgente di cui occuparsi, dimenticando un debito pubblico di circa 2400 miliardi di euro in aumento inarrestabile, un prodotto lordo che non cresce, una disoccupazione attorno al 10% con un tasso che per i giovani è pari a circa il triplo e con un elevato numero di crisi aziendali che non si riescono a risolvere.
La vicenda fa riflettere, con la necessaria serietà, sul comparto agricolo-alimentare al di là delle favole e con un sano realismo.
Si scoprirebbe così che l’Italia è il secondo produttore al mondo di nocciole, circa un decimo della produzione mondiale, ma che ne deve importare un consistente quantitativo, in prevalenza dalla Turchia che è al primo posto fra i produttori con oltre la metà del totale mondiale. Le importazioni sono necessarie e si calcola che l’impiego di Ferrero per produrre Nutella e altri prodotti dolciari superi l’intera produzione nazionale. Una dichiarazione aziendale di qualche anno fa stimava che acquistasse circa un terzo della produzione mondiale. La storia proseguirebbe con lo spostamento dell’attenzione sullo zucchero e sulla necessità di importarne meno e produrne di più in Italia, e l’invito a consumare solo zucchero italiano di cui, peraltro, siamo deficitari.
La riflessione è breve e si riassume in pochi punti. L’Italia presenta un saldo della bilancia agricola-alimentare passivo da sempre, e cioè da quando esistono statistiche attendibili. Ciò non le ha impedito di alimentare una popolazione che dall’Unità d’Italia ad oggi è circa raddoppiata e consuma pro capite alimenti in quantità e qualità nutrizionale superiori.
La bilancia degli scambi, tradizionalmente passiva sia per la componente agricola sia per quella dei prodotti trasformati, da alcuni anni è diventata attiva per questa componente mentre è rimasta passiva per quella agricola. Per esportare più prodotti lavorati il cui ricavato copre una quota maggiore del passivo agricolo dobbiamo però importare quanto necessario. Un ipotetico pareggio fra import ed export è un sogno irrealizzabile sia perché non vi è più terra coltivabile, sia perché in molti casi la materia prima importata è fondamentale per migliorare la qualità nutrizionale e organolettica degli alimenti.
Nei principali comparti delle esportazioni, siamo anche forti importatori di materie prime: le note “eccellenze” alimentari, ad esempio la pasta, l’olio d’oliva, i prodotti tipici come salumi e formaggi, le conserve vegetali, hanno bisogno di essere integrate con importazioni. Nel caso della pasta serve grano duro con requisiti che quello prodotto in Italia non sempre ha, nell’olio vi è da compensare la naturale alternanza produttiva per poter conservare il mercato, per i prodotti zootecnici non abbiamo a sufficienza carni e latte a produrre la quantità necessaria per consumo ed esportazioni. Mancano anche le materie prime per alimentare il bestiame che richiederebbero più terra da coltivare.
Importare per esportare i prodotti trasformati è la ricetta dell’economia italiana in tutti i campi: valida finché riusciamo a produrre ed esportare ottenendo un ricavo che copra il costo delle materie prime. Fino ad oggi è stato così, portando le esportazioni alimentari al secondo posto dopo l’industria meccanica.
Attenzione, però. Non sarebbe possibile conservare questo livello di export senza importare il necessario o addirittura sognare un’impossibile autarchia alimentare.
La soluzione è produrre meglio e di più. Invece cresce la volontà di imporre l’uso di tecniche agricole superate che producono rendimenti minori di quelli dei nostri concorrenti, di destinare più terra a usi ricreativi e paesaggistici non produttivi, di sostenere un’ulteriore riduzione del suolo per servizi e infrastrutture. Un’equazione impossibile da risolvere per un’agricoltura lasciata sempre più sola e priva di una vera politica.
Da qui la futilità di certe questioni come quella della Nutella. È necessaria una seria riflessione su come ricomporre il conflitto fra un’agricoltura ed un’alimentazione sognate e la realtà produttiva ed economica.
Smesse le chiacchiere, vogliamo incominciare?