Dante Alighieri a tavola

di Giovanni Ballarini
  • 27 January 2021

Dante Alighieri, del quale si celebrano i settecento anni dalla morte, tenendo a battesimo la lingua italiana non può dimenticare il cibo e non manca di citare una ricetta dando anche la possibilità di rintracciarne una seconda alla quale allude. In particolare nella “Commedia” il cibo, come tutti gli aspetti della vita, ha un significativo rilievo linguistico concreto e simbolico con toni e registri diversi, facendo anche ricorso a costruzioni ardite che, nella loro varietà, qualifica la lingua di Dante.
Una importante conferma è negli indiavolati canti dei barattieri (Inferno, XXI-XXII) dove i demoni sono rappresentati come cuochi con forche e uncini, come li raffigurano la fantasia popolare e l’arte medievale, che buttano i dannati nella pece bollente e con loro lunghi uncini stanno attenti a che non vengano a galla: Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli / fanno attuffare in mezzo la caldaia / la carne con li uncin, perché non galli (Inferno, XXI, 55-57). Il paragone fra i diavoli e i cuochi è certamente il ricordo delle grandi cucine di palazzi e castelli che Dante conosce nel suo lungo peregrinare. Alla carne infernale si contrappone il pane delli angeli con cui si apre il "Convivio" nel quale la scienza è pane, il panem verum e panis Angelorum, | factus cibus viatorum del Pange lingua, l’inno eucaristico composto da Venanzio Fortunato (530-607) e ripreso da San Tommaso d'Aquino per la liturgia della solennità del Corpus Domini, istituita ad Orvieto nel 1264. Dante conosce il panem verum, ma a lui, durante i suoi pellegrinaggi, diventa pane amaro quando è pagato col prezzo dell’umiliazione: Tu proverai sì come sa di sale | lo pane altrui, e come è duro calle | lo scendere e ’salir per l’altrui scale (Par. XVII 58-60). È Dante l’inventore di questa immagine che mette a confronto il pane sciapo o sciocco dell’Italia centrale con quello salato dell’Italia settentrionale e con il trapasso dalla realtà concreta del pane salato dell’Italia settentrionale alla realtà simbolica dell’umiliazione.
Nella "Commedia" due volte sono considerati i golosi, nell’Inferno (Canto VI) e nel Purgatorio (Canto XXIII e XXVI), diversi sono i dannati e i purganti citati ma della maggior parte non conosciamo l’oggetto della loro golosità. Il personaggio più noto è Ciacco (Inferno, VI, 24-57) con un nome forse derivato da un Jacopo o Giacomo che non è mai stato identificato, o forse un nomignolo che potrebbe significare “porco” e riferito al modo e alla quantità di cibo di cui era ingordo, quindi una metafora di chi è condannato per il peccato della gola per il quale è fiaccato sotto la pioggia, come le altre anime soggette alla stessa pena. Non sappiamo quale dei due significati abbia voluto intendere Dante, ma è probabile che intendesse entrambe le interpretazioni e anche da Giovanni Boccaccio che in una novella del “Decameron” lo cita non ci dà maggiori dettagli.
Solo per tre personaggi possiamo risalire alle loro peccaminose voglie gastronomiche e, di questi, per uno abbiamo quasi una ricetta e per un altro possiamo supporla.
Messer Marchese, ch'ebbe spazio / già di bere a Forlì con men secchezza, / e sì fu tal, che non si sentì sazio (Purgatorio XXIV, 31) è il Marchese o Marchesino di Giovanni degli Argugliosi o Orgogliosi di Forlì, ragguardevole famiglia forlivese che Dante presenta solo come gran bevitore e che sarebbe morto nel 1316, ma non conosciamo nulla sui vini che predilige, diversamente da Papa Martino IV.
Simon de Brion, nato a Tours (Torso) nel Castello di Mainpincien attorno al 1210, diviene Papa con il nome di Martino IV e muore a Perugia nel 1285 e Dante lo pone nel Purgatorio (XXIV, 22 – 24) tra le anime dei golosi per la sua famosa passione per le anguille del lago di Bolsena ed il vino di Vernaccia: ...ebbe la Santa Chiesa e le sue braccia / dal Torso fu, e purga per digiuno / l'anguille di Bolsena e la Vernaccia. Nella "Commedia" qui troviamo una menzione esplicita e circostanziata di un cibo e di una bevanda e possiamo apprezzare la precisione della denominazione di Dante perché le anguille non sono generiche ma del lago di Bolsena, una varietà molto pregiata già nota ai Romani per la sua bontà e per questo citata da Lucio Giunio Moderato Columella. Il vino è la pregiata vernaccia originaria delle Cinque Terre e poi prodotto in Toscana specialmente nella zona di San Gimignano. La vernaccia di Corniglia è menzionata più volte da Boccaccio e da Sacchetti, e compare nella lista della spesa fatta dal cuoco dei priori di Firenze per il giorno di Natale del 1344. Non conosciamo la ricetta delle anguille, ma sembra che Martino prediliga le anguille macerate nel vino e successivamente arrostite e la sua fama di goloso è nota anche all’epoca e motivo di satira, tanto che alla sua morte un epitaffio dice che a giovarsi della sua morte sarebbero proprio le anguille: Gaudent anguillae, quia mortuus hic iacet ille, qui quasi morte reas escoriabat eas.
Tra i golosi citati da Dante vi è Ubaldin de la Pila (vidi per fame a vòto usar li denti / Ubaldin da la Pila. Purgatorio XXIV, 28-29). Un goloso di dolci? Nel Liber de coquina attribuito a Federico II (Martellotti A., I Ricettari di Federico II, Leo S. Olschki, 2005, pag. 252) è riportata la ricetta De crispelli overo frittelle ubaldine una ricetta che si richiama ad un Ubaldo, sulla cui identità si è molto discusso, come riporta Anna Martellotti (pag. 87 – 88). L’ipotesi più probabile è che la ricetta faccia riferimento ad Ubaldino della Pila, denominato dal castello della Pila in val di Sieve, che Forese Donati mostra a Dante tra i suoi compagni peccatori di gola. Una ricetta dedicata ad un ghiottone, od invece presentata come una goloseria che sarebbe stata degna di un ghiottone, tanto celebre presso l’opinione pubblica dell’epoca da essere citato da Dante Alighieri.