Che fine hanno fatto i nostri pinoli?

di Elisa Pellegrini
  • 11 March 2020

Albero multifunzionale come ben pochi (solo il castagno può competere), il pino domestico da sempre rappresenta un anello di congiunzione tra selvicoltura e frutticoltura. Esso è presente da millenni nei nostri ambienti e ci ricorda un passato glorioso sulle terre e sui mari (era uno dei legni preferiti per le costruzioni navali), ci collega idealmente con antiche civiltà scomparse e ci garantisce un legame stretto con le comunità locali; è ricorrente nella letteratura, nelle arti decorative, nei miti, nella quotidianità ed è un assoluto simbolo di “toscanità”. Il pinolo, suo prezioso seme, è un prodotto “biologico” per eccellenza, protagonista della nostra cucina, piccolo e morbido interprete essenziale di preparazioni salate o dolci, che vanno dall’antipasto al dessert, presente in centinaia di ricette tradizionali, dalle Alpi alla Sicilia. Biroldo, castagnaccio, pasta che sàrdi, pesto, pinolata, salsa di pinoli, sarde a beccaficu, spungata, strudel, torta co’ bischeri, mantovana, sono tutti gioielli della tradizione gastronomica. Almeno quattro i sensi soddisfatti dal pinolo: gustoso da assaporare, profumato da odorare, bello da vedere e piacevole al tatto. La sua “etichetta nutrizionale” mette in evidenza i pregi del prodotto di un’alimentazione moderna e allo stesso tempo legata alle tradizioni. La quintessenza dell’healthy food. Il pinolo è ingrediente qualificante per una dieta bilanciata, in particolare per l’assenza di colesterolo (e anche di glutine), per l’apporto di elementi preziosi, come i sali minerali e per il contenuto di antiossidanti e di grassi “buoni”, quelli che non si depositano nelle arterie.
Lo strobilo (pina, o pigna) è un “frutto” quanto mai peculiare: completa la maturazione in tre anni, per non parlare del fatto che viene prodotto ad un’altezza da terra che non ha pari in campo frutticolo. Una pineta domestica origina diverse tipologie di prodotti: oltre ai pinoli, il legname (per la produzione di cellulosa, per biomassa da combustione e, in passato, impiegato nell’industria cantieristica e nell’edilizia e per l’estrazione della resina), gli strobili esausti (insieme ai gusci, come biomassa da energia; le squame come pacciamatura). Ma la presenza del pino domestico può essere declinata anche in ben altre valenze e funzioni: ambientale/ecologica, igienico/sanitaria, storico/colturale, paesaggistica/turistica, il tutto nell’ottica attualissima dei “servizi ecosistemici”. Si tratta di una “firma” irrinunciabile del paesaggio costiero di molte aree mediterranee.
Il pino è caratterizzato da esigenze ecologiche modeste e gli impianti sono prevalentemente basati su un modello selvicolturale a fustaia specializzata coetanea, con particelle avvicendate a taglio raso e rinnovazione artificiale. Ormai, però, da un paio di decine di anni le rese hanno subito una drastica riduzione, fino ad annullarsi, per lo meno nel litorale toscano. Ciò è dovuto a diverse cause di origine sia naturale (in particolare l’aggressione da parte di organismi nocivi e l’inesorabile invecchiamento degli impianti), sia socio-economica (internazionalizzazione dei mercati, abbandono delle pratiche selvicolturali). Tutti questi fattori hanno provocato un’instabilità strutturale ed ecologica delle pinete, compromettendo un’intera economia legata a questi agrosistemi forestali. E’ soprattutto l’azione del “cimicione” (Leptoglossus occidentalis, insetto rincote di origine neoartica) che ha inferto ai produttori nostrani il colpo di grazia. Aborto dello strobilo se l’attacco è precoce, altrimenti, negli anni successivi, riduzione significativa delle rese, questi sono gli effetti dell’infestazione. Qualche dato, riferito alla Tenuta di San Rossore, da sempre uno degli hotspot della produzione di pinoli: recentemente non si sono mai superate le rese di 2.000 q di pine e dal 2016 al 2020 non si è neppure proceduto alla raccolta; l’ultima base d’asta supera di poco i 500 q, neppure un ventesimo di quelle che erano le produzioni tradizionali. Ma non solo si ricavano pochi strobili: la resa in pinoli sgusciati (oggi intorno a 1 kg per 100 kg di pine verdi) si è ridotta a un quarto rispetto ai dati pre-crisi.
Oramai le nostre pinete non sono più capaci di produrre pinoli, e mai come oggi “il bosco è un costo”, un impegno economico che proprietari pubblici e privati fanno fatica ad affrontare. Si sta innescando una spirale che porta alla dissoluzione, con l’abbandono dei soprassuoli (niente pratiche colturali, come potature, diradamenti, allontanamento della necromassa), l’invasione da parte di un sottobosco di scarso significato naturalistico (es. roveti), l’incubo incendi. Ma il mercato continua a essere interessato al prodotto pinolo. Ne consegue l’aumento dei prezzi (1 kg di mandorle spagnole di prima qualità può superare 130 euro), ed è inevitabile il ricorso a surrogati. In particolare, il continente asiatico ospita tre specie di Pinus (P. sibirica, in Siberia; P. koraiensis, in Korea; P. gerardiana, in Pakistan) i cui semi possono in qualche misura coprire le esigenze del consumatore, pur avendo caratteristiche qualitative meno pregiate.
Rimane tutto da affrontare, a livello politico, il destino delle nostre pinete. Serve un cambio di passo, tale da spostare il baricentro del loro ruolo, una lettura “nuova” del bosco, quella culturale (che si può scomporre in termini di estetica, paesaggio, tradizioni, servizi ecosistemici), che – a sua volta – non è priva di risvolti economici (legati alla fruizione turistica), per avviare un programma di restauro dei boschi. Il tutto “prima che l’ultimo pino finisca bruciato…”