Siamo sicuri che fra cinquanta anni i nostri suoli saranno ancora in grado di sostenere una qualche produzione?

di Marcello Pagliai
  • 23 November 2016
Nel 2009 partecipando a un convegno sulle problematiche del suolo, dopo aver relazionato sui danni prodotti dagli sbancamenti e scassi per l’impianto di nuovi vigneti in Toscana, affermai, un po’ provocatoriamente, che fra cinquanta anni non ci sarebbero stati più vigneti nel Chianti! L’indomani sulla cronaca di un giornale locale il 
breve resoconto del convegno veniva così titolato “Nel 2059 ultimo anno di vendemmia nel Chianti”. Questa fu per me l’ennesima dimostrazione di quanto sia difficile sensibilizzare l’opinione pubblica ma anche gli addetti ai lavori in agricoltura, circa la conoscenza e la fragilità dei nostri suoli. Eppure, in vari consessi, si ripete che il suolo non lo abbiamo ereditato ma preso in prestito dai nostri figli ma, quali suoli lasceremo alle nuove generazioni? Lo stato di degrado dei suoli italiani è ormai drammaticamente noto: 21% a rischio desertificazione (41% nel sud); perdita del 30% della capacità di ritenzione idrica negli ultimi 40 anni; la perdita di suolo per erosione supera di 30 volte il tasso di sostenibilità (erosione tollerabile); perdita di sostanza organica, il cui contenuto, in vaste aree, scende addirittura sotto l’1%, ecc. Le strategie tematiche per la protezione del suolo varate dall’Unione Europea indicano, fra l’altro, che il compattamento rappresenta una delle minacce più pericolose di degradazione del suolo, eppure in Italia è completamente ignorata. Nonostante si parli da tempo di agricoltura sostenibile, nelle aziende agricole (per lo più medio-piccole) si vedono circolare trattori mastodontici con pneumatici a pressione di 
gonfiaggio normale che hanno compattato in modo irreversibile il suolo sia a livello superficiale che a livello di suola d’aratura. Se a questo si aggiunge l’effetto dei cambiamenti climatici che portano sempre più spesso a eventi piovosi di grande entità in brevissimo tempo (bombe d’acqua), le conseguenze sono ben evidenti: i suoli, nel lungo termine, hanno perso la capacità drenante, in modo particolare i suoli alluvionali delle nostre pianure, ricchi in limo, quindi con scarse capacità di rigenerazione strutturale, per cui si assiste a erosioni catastrofiche nelle zone declive e ad allagamenti nelle zone pianeggianti con notevoli compromissioni delle colture in atto.
Discutibili sono anche i dati che riportano incrementi, in generale, della produzione agricola: a titolo di esempio, nelle zone vocate alla produzione di grano duro nella Maremma Toscana negli anni 60 si raggiungevano produzioni di oltre 60 q/ha, attualmente, nelle annate migliori, la produzione arriva a mala pena a 40 q/ha (da notare anche che in alcune annate non è stata possibile la semina a causa proprio dei terreni allagati).
Attualmente siamo agli albori di un’agricoltura di precisione: sarebbe opportuno fin d’ora pensare a macchine agricole la cui massa sia più compatibile con la suscettibilità al compattamento dei suoli e, per questo, è assolutamente indispensabile una reale collaborazione interdisciplinare fra ingegneri agrari, agronomi e pedologi, cioè di tutti coloro che in qualche modo operano sul suolo.
Mi rendo conto che in un momento di crisi anche dell’agricoltura italiana e della difficoltà degli agricoltori di conseguire un reddito di sopravvivenza, porre la domanda a lungo termine di cui sopra può sembrare la provocazione di un inguaribile pessimista.
Ad ogni modo credo che una riflessione, da parte di chi ha a cuore il futuro del nostro Paese, sia opportuna.