Un sacchetto di guai per la distribuzione e i consumatori

di Dario Casati
  • 05 December 2018
Il primo gennaio 2018 gli Italiani scoprirono che si riduceva la libertà economica e c’era una nuova tassa occulta. Era nato l’obbligo per i negozi di vendere i prodotti, in prevalenza frutta e verdura, in sacchetti ecologici a pagamento e per gli acquirenti di acquistarli negli stessi sacchetti. In quei giorni, come forse si ricorderà, vi fu un florilegio di notizie, commenti e pareri emessi da un’umanità variamente competente. Poi, con qualche mugugno, tutto rientrò nel silenzio e i consumatori iniziarono a spendere un centesimo o due in più ad ogni acquisto di ortofrutta, distinto per specie e varietà commerciale. All’origine di tutto vi è una direttiva comunitaria che impegna a ridurre l’uso della plastica. Colta da entusiasmo ambientalista e da eccessivo zelo l’Italia decise di varare una legge con cui si obbligavano venditori e clienti ad impiegare i sacchetti, costosi e scarsamente efficienti, facendoli pagare ai clienti e con l’ulteriore vincolo per i venditori di non cederli in omaggio. Per disincentivare l’uso della plastica gli uni furono costretti ad attivare uno specifico sistema di fatturazione/contabilizzazione e gli altri a pagare il costo di un sacchetto, di fatto non reimpiegabile, che non volevano.
Già pochi giorni dopo, un’indagine mostrava la reazione del consumatore.  Si riduceva l’acquisto dei prodotti sfusi gravati dal costo del sacchetto sostituendoli con quelli già confezionati dal venditore con un maggior quantitativo di plastica, ma senza costo apparente. Un’indagine Ismea riferita al primo trimestre 2018 diede la conferma: l’ortofrutta sfusa rispetto all’anno prima era scesa del 3,5% in quantità e del 7,8% in valore. Da ultimo un’indagine Iri Infoscan pubblicata su Italiafruit News del 21/11/18 per i primi nove mesi 2018 indica un calo dello sfuso dell’8,1% e un incremento del confezionato del 5,8%. Questo, fermo da tre anni al 31% delle vendite, nei 9 mesi del 2018 é salito al 34%.
Questi risultati dimostrano innanzitutto due cose: a) in generale l’intento di “educare” il consumatore viene respinto come un’inaccettabile ingerenza, infatti lo strumento adottato ha prodotto l’effetto opposto a quello desiderato; b) nello specifico, un provvedimento assunto senza tener conto della reazione dei destinatari non agisce sul consumatore che preferisce spendere, secondo i calcoli, fino al 43% in più per il confezionato con molta plastica in più.
Torniamo al tema del rapporto fra politiche economiche e libertà di impresa nel campo della distribuzione già affrontato con la discussione sugli orari di vendita. Su di esso si sta combattendo una battaglia decisiva fra la libertà dei comportamenti economici, da un lato, e, dall’altro, un vetero-dirigismo economico, residuo di un’idea di stato venata di pulsioni moralistiche, come la decrescita felice o le scelte obbligate di consumi “etici”.  I cittadini sensibili ai temi ambientali lo accettano per libera scelta,  ma, se si sentono costretti,  reagiscono come per i sacchetti: riducono i consumi “virtuosi” e tornano ad altri che lo sono molto meno.
La ripresa del commercio, come quella dell’intera economia e dell’occupazione ha bisogno di politiche diverse. Non basta pretendere di far pagare uno o due centesimi un inutile sacchetto per ridurre la plastica “cattiva”.  La strada è un’altra. Basta lasciare a distributori e consumatori la scelta della soluzione più idonea purché sia coerente con lo scopo prefissato. Possiamo essere certi che con costi minori e vantaggi per l’andamento delle vendite si otterrebbero risultati migliori. Una previsione facile: con l’attuale legge queste sono scese, il consumatore spende di più e la plastica da smaltire aumenta.
Per il bene dell’Italia occorre occuparsi seriamente di distribuzione.