Notiziario





L’immunità agro-ecologica, un concetto più ampio di immunità vegetale

L’immunità vegetale indica la capacità di una pianta di difendersi dai potenziali bioaggressori esterni. In campo agronomico questo concetto vede la sua diretta applicazione nella selezione genetica e nell’utilizzo di induttori di resistenza.

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Parliamo di “sostenibilità”

Quelli che, come me, sono nati prima della seconda guerra mondiale, devono fare i conti con tanti neologismi o con vecchi termini dei quali è cambiato o è stato aggiornato il significato. Ci dobbiamo adeguare pressoché in continuazione e, spesso, non è facile. Uno degli esempi più comuni è il significato del sostantivo “sostenibilità” e del relativo aggettivo “sostenibile”. Vado a cercare le due voci sul vocabolario Zingarelli del 1995. Mi si rimanda al verbo “sostenere”, per il quale si danno ben dieci significati: reggere un peso, prendere un impegno, mantenere alto qualcosa (i prezzi, la voce), aiutare qualcuno, nutrire, affermare un’idea, resistere, soffrire, indugiare, trattenere. Wikipedia mi aggiorna aggiungendo un undicesimo significato, riuscendo così a colmare la mia lacuna culturale. La precisazione di Wikipedia recita: “la sostenibilità è il processo di cambiamento nel quale lo sfruttamento delle risorse, il piano degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e le modifiche istituzionali sono tutti in sintonia e valorizzano il potenziale attuale e futuro al fine di far fronte ai bisogni e alle aspirazioni dell'uomo”.

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La Marmolada ci ha dato un monito che non possiamo ignorare

La recente tragedia della Marmolada ha portato alla ribalta mediatica un tema che gli studiosi del clima già da molti anni stanno monitorando con preoccupazione. Aumento o perdita di massa per i ghiacciai sono infatti processi normali su scale temporali molto ampie, ovvero di secoli. Ma se le temperature crescono più rapidamente, come sta avvenendo da alcune decine di anni a questa parte, anche la velocità di fusione del ghiaccio aumenta, ed è questo il problema attuale. È da ricercare su questa linea il collegamento fra il distacco sul ghiacciaio della Marmolada e i cambiamenti climatici in corso. Ne parliamo con il professore Antonello Pasini, fisico del clima del Cnr.

Professore, alcuni hanno parlato di "tragedia «imprevedibile", almeno in queste dimensioni. Glaciologi, nivologi, volontari del soccorso alpino e habituée della Marmolada sembrano tutti d’accordo nel considerare il crollo del seracco di ghiaccio sommitale di Punta Rocca – che ha interessato la via normale sulla quale alcune cordate erano impegnate per salire – un evento fuori dalla portata di previsione di cui si dispone attualmente. Ma è davvero così?
Certamente, come per tutti i fenomeni fisici “a soglia”, anche un crollo di questo tipo non è prevedibile in maniera deterministica. Ciò significa che non siamo in grado di prevedere il distacco del seracco per una certa ora o neanche per un certo giorno. Questo non vuol dire, però, che non si possano prevedere le condizioni favorevoli a fenomeni di questo tipo. Nel nostro caso attuale, la poca neve invernale e il fatto che per il riscaldamento globale nevichi sempre a quote più elevate hanno fatto sì che questo seracco non sia stato protetto da uno strato di neve fresca, ma si sia trovato “nudo” a risentire della forte radiazione solare in un lungo periodo di “bel tempo”, con punte di temperatura giornaliera estreme, mai osservate a quelle quote, ma soprattutto con la persistenza duratura di un forte anticiclone africano che ha portato per almeno due mesi a temperature elevate. In queste condizioni, rotte alpinistiche generalmente sicure sono diventate pericolose. In inverno il Meteomont fa un ottimo lavoro di previsione delle condizioni di rischio per le valanghe. Io credo che ora, con l’aggravarsi del riscaldamento, occorra studiare a fondo le situazioni che si vengono a creare nel semestre caldo, affinché si possa arrivare a bollettini di quel tipo anche per la stabilità dei ghiacciai o almeno delle loro parti più a rischio. Ciò necessiterà di una stretta collaborazione tra scienziati ed esperti locali per il monitoraggio, anche con strumenti innovativi, e lo sviluppo di modelli di rischio.

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Addio a Paolo Grossi

Il giurista Paolo Grossi, rinnovatore degli studi della storia del diritto italiano, presidente emerito della Corte costituzionale, che ha guidato tra il 2016 e il 2018, è morto a Firenze lo scorso 4 luglio, all'età di 89 anni.
Era professore emerito di Storia del diritto medievale e moderno dell'Università di Firenze, dove ha svolto quasi tutta la sua prestigiosa carriera accademica.
Accademico dei Georgofili dal 1965, emerito dal 2002, lo ricordiamo con la prolusione da lui svolta in occasione della inaugurazione del 250 anno accademico dei Georgofili, nel 2003.

Aspetti giuridici della globalizzazione economica
Il tema della prolusione segnala la lungimiranza del nostro impareggiabile Presidente, autentico rifondatore di questo plurisecolare sodalizio; si tratta, infatti, di un tema immerso nel presente ma proiettato nel futuro.
È un privilegio non nuovo per la nostra Istituzione: da giurista, mi piace almeno ricordare le ricche dispute sul contratto basilare della vecchia economia agraria toscana, la mezzadria classica, dispute antesignane che si orìginano e si sviluppano nel clima culturalmente vivacissimo della prima metà dell’Ottocento, quando le aule dei Georgofili costituivano – nella completa assenza di un polmone universitario – il centro della intiera cultura fiorentina.
È una vivacità culturale, di cui oggi gode la Accademia sotto la vigile ma insieme coraggiosa Presidenza di Franco Scaramuzzi, ed è per ciò che ho ritenuto un autentico onore per me l’invito a tenere la prolusione in una ricorrenza celebrativa di tanto rilievo.
Vorrei aggiungere che il tema del presente discorso è tutt’altro che isolato: era sostanzialmente il nucleo della prolusione dell’allora Ministro Dini, del 1998, su “L’agricoltura di fronte alle sfide dell’economia globale” e ha costituito l’oggetto formale di quelle tenute nel 2000 dall’ambasciatore Renato Ruggiero su “Globalizzazione e interdipendenza” e dal Presidente Alfredo Diana nel 2002 su “Problemi attuali della globalizzazione e della fame nel mondo”.
Si dirà, piuttosto, da qualcuno: perché questa insistenza? Non se ne parla abbastanza dappertutto e perfino sulla stampa quotidiana, tanto da far scivolare il tema nella bassa corte dei luoghi comuni?
Una prima risposta è che se ne parla troppo spesso senza cognizione di causa e che occorre da parte dell’uomo di cultura munirsi di coscienza rigorosamente critica verso un fenomeno che sempre più ingigantisce. Una seconda risposta – e che mi riguarda da vicino – è che se ne è parlato analizzando soprattutto le dimensioni economica e sociologica, mentre è rimasta finora in ombra la sua dimensione strettamente giuridica.
Eppure, v’è la sentita esigenza di una ‘governabilità’, di una ‘migliore governabilità del sistema globale’, e proprio nella sopramenzionata prolusione di Ruggiero è scritto e sottolineato l’auspicio di «una strategia comune (...) per rafforzare un sistema internazionale basato sul diritto».
Oggi, la globalizzazione, quale enorme fenomeno in corso soggetto a continui sviluppi e a rilevanti continue trasformazioni, appare ancora come un terreno di sabbie mobili estremamente bisognoso di un intervento da parte della scienza giuridica, scienza tipicamente ordinante, l’unica che possa orientare, definire, insomma ordinare una realtà per sua natura magmatica, straboccante, spesso incontenibile.
Per cominciare subito il nostro cammino ordinativo, è opportuno sgombrare il passo da equivoci, domandandoci il significato primo della globalizzazione: il riferimento è a un tempo storico – l’attuale – che si connota per un primato della dimensione economica quale risultato ingombrante del capitalismo maturo che stiamo vivendo; un primato che dà alle forze economiche una virulenza mai sperimentata fino a ora e una insopprimibile tendenza espansiva. Il mercato appare, come non mai, insofferente a confinazioni spaziali, forte di una sua vocazione globale e determinato a realizzarla. Con un corroboramento ulteriore: l’alleanza e l’ausilio, pronti ed efficaci, delle recentissime tecniche info-telematiche. Anch’esse sono insofferenti a delimitazioni territoriali, si misurano non con i vecchi cànoni spaziali ma campeggiano in uno spazio virtuale a cui è estranea, avversa, innaturale una qualsiasi demarcazione territoriale.


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Pubblicati il nuovo sito della Rivista di Storia dell’Agricoltura (RSA) e il Corpus di Storia Agraria (CSA)

L’Accademia dei Georgofili ha compiuto un nuovo e sostanziale passo nella valorizzazione degli studi storici dedicati all’agricoltura e al mondo delle campagne. Si tratta di un progetto che parte da lontano, con la digitalizzazione realizzata negli scorsi anni di tutti i fascicoli della Rivista fin dalla fondazione (1961), realizzata mediante acquisizione digitale, OCR e verifica degli errori per assicurare la migliore riuscita e l’efficacia delle ricerche full text. La nuova iniziativa, intrapresa grazie all’impegno finanziario dei Georgofili, mira oggi non solo a migliorare la fruizione di questo originale patrimonio culturale, ma anche al raggiungimento dei più alti livelli di accreditamento tra le riviste scientifiche dell’area storica.

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Basta con la cattiva informazione

La SIGA (Società Italiana di Genetica Agraria) ha ritenuto opportuno pubblicare una risposta ad un articolo intitolato “L’Ue valuta nuovi alimenti: arrivano gli NGT per sostituire gli OGM” , pubblicato su La Repubblica lo scorso 1 giugno a firma di Giorgio e Caterina Calabrese.

(Leggi QUI.pdf l’articolo in PDF)

La SIGA condanna l’approssimazione del messaggio e i numerosi errori di carattere scientifico che rendono l’articolo un “pessimo esercizio di divulgazione”. E sottolinea: “Come è è possibile che uno dei quotidiani più letti ed autorevoli ospiti interventi di questo genere, dove il dato scientifico si mescola in maniera indistinguibile con il sentito dire e con spiegazioni tecniche inadeguate, producendo messaggi ingannevoli?”.

L’Accademia dei Georgofili condivide pienamente quanto sostenuto dalla SIGA e per tale motivo pubblica anche su “Georgofili INFO” il suo messaggio, facendo tesoro di quanto sostenuto da Luigi Einaudi durante la prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico dei Georgofili nel 1957: “sono persuaso che la figura retorica della ripetizione sia una delle pochissime armi consentite agli studiosi per combattere l’errore”.

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Andando al nòcciolo, anzi al nocciòlo

La coltivazione del nocciòlo rappresenta un'importante filiera agroalimentare in Italia ed in molti altri Paesi del mondo. Tra le più temute e dannose avversità biologiche che minacciano questa coltivazione, vi è sicuramente la cosiddetta “necrosi batterica del nocciolo, causata da Xanthomonas arboricola pv. corylina (Xac), batterio fitopatogeno della lista A2 della European and Mediterranean Plant Protection Organization degli organismi nocivi per i quali è raccomandata una regolamentazione quale patogeno da quarantena. Ad oggi, la lotta a Xac e il contenimento della malattia sono affidati a trattamenti fitoiatrici tradizionali a base di rame e all’applicazione di opportune pratiche agronomico-colturali. Ma è ben noto che il rame è stato definito dall'UE come “candidato alla sostituzione” a causa dei rischi ambientali associati al suo utilizzo. Pertanto, la ricerca di alternative efficaci ​​è una priorità ogni giorno più urgente. Tra queste sono da citare l’estrazione ecosostenibile di principi antimicrobici da residui vegetali, sempre più spesso abbinata nell’applicazione a strumenti nanotecnologici.

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Green Deal, non è tutto verde quello che luccica

"Nuova PAC e strategie correlate", questo il tema affrontato in una tavola rotonda che si è svolta a Firenze lo scorso 27 giugno, organizzata dall'Accademia dei Georgofili. Alla luce delle conseguenze della guerra in Ucraina e di una delle più severe siccità degli ultimi anni, è necessario interrogarsi ed analizzare realisticamente le due strategie del Green Deal europeo, ovvero la strategia Farm to Fork e Biodiversity, per capire se gli obiettivi prefissati sono realizzabili e, soprattutto, come andranno ad impattare sulla produzione agricola e zootecnica. Alla tavola rotonda sono intervenuti Aldo Ferrero dell'Università di Torino, Massimo Tagliavini della Libera Università di Bolzano e Presidente AISSA, Giuseppe Bertoni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore e Davide Viaggi dell'Università di Bologna. Ha moderato Ivano Valmori, Ceo di Image Line, con il quale facciamo il punto su quanto emerso dal dibattito. 

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Il Position Paper “Genome Editing”

Il 23 giugno scorso è stato presentato a Roma in anteprima, alla Assemblea del CL-USTER A.GRIFOOD NAZIONALE, il Position Paper “Genome Editing”, frutto del lavoro di un gruppo congiunto CL.A.N, Cluster SPRIN, e ASSOBIOTEC e redatto da Simona Baima, Lugi Cattivelli, Alessia Fiore, Michele Morgante e Silvio Salvi.
Il documento fa il punto sul delicato argomento dell’uso delle nuove tecniche genomiche (NGT, genome editing e cisgenesi), la cui applicazione potrebbe aprire scenari promettenti sia per il miglioramento delle produzioni e dei prodotti sia per l’applicazione degli obiettivi pressanti di sostenibilità ambientale. Il genome editing consente di indirizzare modifiche genetiche in modo controllato in uno o più punti precisi del genoma, anche attraverso la sola correzione di una “lettera” (nucleotide) nella sequenza di un gene, e consente di introdurre nuovi caratteri senza ricorrere all’inserimento di geni provenienti da altre specie (come accade invece con le tecniche di trasformazione genetica che generano OGM). Essendo in grado di modificare un solo carattere, magari quello della resistenza a un parassita, resilienza verso un fattore ambientale sfavorevole, miglioramento del prodotto, il genome editing mantiene inalterato il patrimonio genetico, ed è tecnologia relativamente semplice ed economica, applicabile anche a varietà e razze tipiche e colture “di nicchia”.
Allo stato attuale, però, varietà e ibridi ottenuti in questo modo sono soggette alle stesse normative restrittive dei cosiddetti OGM e, in assenza di specifica normativa, è in corso un dibattito anche piuttosto acceso nell’opinione pubblica, con posizioni favorevoli (scienza e larga parte del comparto produttivo) e contrarie (associazioni ambientaliste e associazioni biologiche). Certamente è opportuno che si operi per applicazioni che dimostrino un impatto positivo sul consumo, la tolleranza allo stress, la redditività, e il settore importantissimo della sicurezza alimentare, assenza di patogeni e tossigeni. E’ interessante sapere che già esiste, nel mercato giapponese, un pomodoro commerciale proveniente da genome editing, il “Sicilian Rouge High GABA”, caratterizzato da un maggior contenuto di acido- gamma-amminobutirrico”, funzionale a contrastare l’ipertensione. Uno degli esempi più eclatanti, e raggiungibili, è legato al miglioramento dei profili di sostenibilità ambientale delle varietà tradizionali della viticoltura nazionale, riducendo l’uso dei fitofarmaci senza alterare i caratteri organolettici dei vini. E ci sono prospettive interessanti nel settore zootecnico, anche sul benessere animale (ad es. la introduzione della assenza di corna nelle linee da latte più produttive, utile per la sicurezza degli animali e degli operatori), e soprattutto, sulla valorizzazione dei comparti lattiero-caseari e la produzione di carni, carni trasformate, uova. In questo caso, si tratta del migliorare l’efficienza degli allevamenti riducendone l’impatto ambientale e limitando le emissioni, inserire resistenze genetiche a malattie, riducendo l’uso di antibiotici e l’insorgenza di resistenze ad essi, modificare la composizione di alcuni prodotti (ad es. latte con assenza di proteine allergeniche) per mettere a disposizione dell’industria prodotti innovativi ma anche rispettosi delle tradizioni. Nel settore microbiologico, ci sono prospettive importanti sulla produzione di peptidi bioattivi ed enzimi da parte di ceppi fungini (es. Thricoderma reesei) per produrre quantità elevate di proteine ricombinanti ad alto valore tecnologico, o per ottenere ceppi avirulenti e atossigenti di specie patogene per applicazioni di lotta integrata o biologica.

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La formazione universitaria nella scuola di agraria: 50 anni di evoluzione del settore agronomico

“Chi più sa più vale” affermava Randolph Frederick Pausch (1960-2008) informatico e accademico statunitense presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh, Pennsylvania. Una asserzione quanto mai valida oggi dato il periodo di radicale cambiamento cui siamo sottoposti. Per reggere al meglio ad un tale sconvolgimento di ruoli, innovazioni e saperi è indispensabile cercare di allinearsi con delle nuove esigenze culturali e lavorative; occorre cioè fare formazione, meglio se continua. I convegni SIA (Società Italiana di Agronomia) hanno contribuito e contribuiscono tutt’ora allo sviluppo della formazione degli Agronomi giovani e diversamente giovani. Considerata la cadenza con cui vengono organizzati, i convegni SIA fanno parte della formazione continua e dato che fino ad ora ne sono stati celebrati 50, merita fare il punto anche sotto questo profilo.

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È urgente cambiare la rotta nella gestione del verde urbano

Messaggio schematico, in pillole, ma forte, sulle ragioni che rendono impellente la necessità di invertire la rotta nella gestione del verde urbano nelle nostre città e portare questo tema alla ribalta dell’azione amministrativa.
Sul tema si registrano in generale, sui social e altrove,  atteggiamenti diversi, ma tutti stigmatizzabili: indifferenza, talvolta condita da superficiale ironia, come se chi li scrive vivesse su una rampa di lancio pronto a salpare per altri pianeti, e ciò che accade in questo proiettato nel microcosmo delle nostre città non lo toccasse, o messianici messaggi filoambientalisti, che nascondono dietro una parvenza di green il grigio della filo cementificazione; oppure si identifica il verde urbano con qualche aiuola i cui fiori sono costantemente cambiati sulla base di canoni puramente estetici o con una visione ottocentesca dei nostri orti botanici museale mummificatoria che trascura la straordinaria valenza ecosistemica che lo connota.
È necessario andare oltre: si deve parlare di verde urbano, o meglio, della foresta urbana per usare un termine ormai consolidato nel linguaggio degli addetti ai lavori, solo sulla base di due elementi: conoscenza dei dati scientifici e conoscenza delle norme giuridiche, che esistono da tempo, e che disegnano i binari che guidano l’azione della pubblica amministrazione in questo settore, costruite sulla base di quei dati scientifici.
Partiamo dal dato scientifico.
La scienza da tempo, in modo compatto, univoco e consolidato,  ha lanciato un messaggio forte, un grido d’allarme legato anche alle proiezioni sull’aumento della densità abitativa dei contesti urbani e periurbani: il consumo di suolo, la impermeabilizzazione del suolo, in ambito urbano e periurbano va fermato perché innesca nella città una escalation esponenziale di altre criticità di matrice ambientale, tutte strettamente interconnesse tra loro, nel senso che l’una genera e potenzia l’altra: perdita di stabilità idrogeologica, aumento del tasso di inquinamento, perdita o erosione di biodiversità, habitat e specie, con conseguenze devastanti, in un’ottica antropocentrica, in termini di perdita di servizi ecosistemici, incremento dei consumi energetici, artefici del fenomeno delle isole di calore che, a sua volta, potenzia il cambiamento climatico che poi si ripercuote negativamente su tutti questi fattori negativi fungendo all’interno della città da moltiplicatore di insostenibilità: questo gioco perverso di reciproci condizionamenti ha un’incidenza significativa e scientificamente acclarata sul benessere e sulla salute umana, come dimostrano i dati dell’ONU e dell’OMS, contribuendo ad incidere anche sulla diffusione e radicazione di nuove epidemie e pandemie.

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Gli sprechi alimentari e la loro conversione per la produzione di latte

Secondo vari studi di alcune università americane, gli alimenti destinati alle bovine da latte negli Stati Uniti contengono dal 20 al 30% di avanzi alimentari di varia origine, con punte del 40%. I risultati in termini qualitativi e quantitativi di produzione di latte sono in tutto confrontabili con quelli ottenibili con cereali e semi di leguminose tradizionali. I sottoprodotti più comuni sono i residui dell’industria di panificazione e dolciaria, i residui di distilleria, scarti di frutta ed i ritagli delle verdure.
Le statistiche della “Northwest Dairy Association” riferite al 2015 indicano che circa 140 tonnellate di scarti alimentari vengono impiegate ogni giorno nell’alimentazione delle bovine da latte negli Stati Uniti. Uno studio dell’Università di Wisconsin-Madison ha identificato ben 41 diversi tipi di scarti e sottoprodotti.

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Alzheimer, Parkinson, sclerosi: così le aree verdi ci proteggono

L'emergenza sanitaria che stiamo affrontando a causa di un virus non deve farci dimenticare che le malattie non trasmissibili sono le maggiori responsabili del carico globale di malattie: uccidono 40 milioni di persone ogni anno, pari a circa il 70% di tutti i decessi a livello mondiale. Sono malattie che spesso coesistono con depressione, schizofrenia e disturbo bipolare: i due gruppi di disturbi entrano in sinergia. Da una parte il malessere psichico aumenta il rischio dell’incidenza delle malattie non trasmissibili a causa dello sviluppo di comportamenti negativi e della scarsa ricerca di aiuto. D'altra una condizione di salute fisica carente tende ad aumentare depressione e ansia.
I fattori di rischio modificabili come quelli legati agli stili di vita sono elementi chiave delle malattie non trasmissibili, ma anche le esposizioni ambientali svolgono un ruolo importante, in particolare l’inquinamento atmosferico e il rumore. C'è infatti un crescente interesse nello studio del rapporto tra il contatto con l'ambiente naturale e le condizioni di salute a lungo termine.

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Alternative ai fertilizzanti chimici da pesci e insetti: si può ma serve più attenzione a questi settori

Il 4 marzo scorso il Ministero del Commercio russo ha dichiarato lo stop all'esportazione di fertilizzanti di sintesi, di cui anche l'Italia era una forte utilizzatrice. Eppure ci sono delle soluzioni alternative che è forse arrivato il momento di incentivare.
Una di queste è l'acquaponica, ne parliamo con la Professoressa Giuliana Parisi, accademica dei Georgofili e Ordinario di Acquacoltura all'Università di Firenze.

Professoressa Parisi, come funziona l'acquaponica e come i pesci possono aiutare le piante a crescere?
Si tratta di un approccio moderno, che può raggiungere anche livelli di estrema complessità, a sistemi integrati applicati anche in epoche storiche remote. Infatti un approccio del tutto simile nel concetto veniva applicato anche dagli Aztechi e nell’antica Cina. Il principio sul quale si basa l’acquaponica consiste nell’accoppiare l’allevamento dei pesci, e quindi l’acquacoltura (acqua-), con la coltivazione dei vegetali in sistemi idroponici (-ponica), mettendo in circolo i reflui derivanti dall’allevamento dei pesci che contengono sostanze azotate e fosfatiche che, una volta mineralizzate dai microrganismi inseriti nel sistema, rappresentano nutrienti che le piante possono utilizzare. Insomma, l’acquaponica consente di trasformare un problema (quello dello smaltimento delle acque reflue, derivanti dall’allevamento dei pesci) in una opportunità, cioè il recupero dei nutrienti che possono essere sfruttati per la coltivazione dei vegetali. L’acquaponica risponde appieno a uno degli obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs) dell’ONU (l’obiettivo n. 12: Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo), obiettivi ai quali tutte le nostre attività devono conformarsi. L’acquaponica rappresenta uno splendido esempio di economia circolare che valorizza gli scarti di un processo produttivo, rimettendoli in circolo. Il principio su cui si basa l’acquaponica può essere declinato a vari livelli, passando da sistemi estremamente semplici (low-tech aquaponics), che potrebbero trovare applicazione anche in contesti economici poco evoluti, per arrivare a sistemi altamente tecnologici, potenzialmente capaci di alte produttività che possono però essere ottenute attraverso un accurato controllo di tutti i fattori convolti e di tutte le fasi in cui il sistema si articola.

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Arriva la birra a base di amaranto

“Sangorache” è il marchio denominativo recentemente registrato dall’Università di Firenze per identificare la prima bevanda a base di amaranto coltivato in Italia, utilizzando una varietà di questo pseudocereale selezionata dall'Ateneo fiorentino come risultato di una sperimentazione promossa dal Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie, Alimentari, Ambientali e Forestali (DAGRI). Ne parliamo con il Prof. Paolo Casini,  impegnato da anni in questa ricerca.

Professore, innanzi tutto, ci ricorda che cos'è l'amaranto?
L'amaranto, con le sue diverse specie, è originario del Messico e delle zone andine dell'America del Sud. Estesamente coltivato principalmente per scopi alimentari fino all'arrivo dei Conquistadores, per secoli la sua coltivazione è stata vietata da quest'ultimi poiché legata ad alcuni riti pagani; con i semi si facevano figure antropomorfe che poi venivano consumate in occasioni rituali. Le indiscusse proprietà alimentari di questa pianta sono state riscoperte negli anni Settanta dello scorso secolo contribuendo al crescente interesse per questo pseudocereale nel settore alimentare e della ricerca anche ai fini di una sua proficua coltivazione al di fuori delle aree di origine. Le utilizzazioni dell'amaranto sono moltissime. Le principali caratteristiche di questa specie sono l’elevato contenuto di proteine (13-21%), di lisina e di calcio, oltre a essere caratterizzata dall’assenza di glutine e quindi idoneo all’alimentazione dei celiaci. Le proteine, con una digeribilità vicina al 90%, costituiscono un altro degli elementi caratterizzanti. Infatti, oltre alla già citata ricchezza in lisina, i semi di amaranto costituiscono una preziosa fonte di triptofano ed in genere di aminoacidi solforati.
I semi contengono in media 6-8% di lipidi. Una delle caratteristiche più importanti dell’olio di amaranto è il suo elevato contenuto di squalene (4-8%), un triterpene, composto strutturalmente molto simile al β-carotene, metabolita intermedio nella sintesi del colesterolo. Si tratta quindi di un’importante fonte di questa sostanza superiore a quella contenuta in altri vegetali come la crusca di riso, il germe di grano e l’olio di oliva. Recenti studi hanno messo in evidenza come lo squalene possa rientrare nella composizione di farmaci per la riduzione del colesterolo ematico. Quest’ultima proprietà, unita a quella antiossidante dei tocoferoli, composti generalmente indicati come vitamina E, viene sfruttata dall’industria cosmetica soprattutto nel settore della cura della pelle e dei capelli e, più genericamente, nei formulati anallergici. Le proprietà riconosciute sono attribuite all’elevato potere antiossidante “anti invecchiamento”.
L’amaranto, oltre a costituire la base di un gran numero di preparazioni alimentari, viene impiegato soprattutto utilizzando i semi soffiati per la formulazione di barrette, snack vari, muesli, granola, estrusi e, ridotti in farina, nell’ambito della pasticceria secca o fresca. Altra particolare utilizzazione sia nel settore non alimentare che alimentare, è quella dell’impiego dell’amido, caratterizzato da granuli molto piccoli (in media inferiori a 1 μm) in confronto a quelli del riso (3-8 μm), del frumento (3-34 μm) e del mais (5-25 μm) e di forma poliedrica. A causa delle loro dimensioni, e quindi della grande superficie specifica (rapporto superficie sviluppata/volume) per unità di peso, le particelle di amido di amaranto possiedono un’elevata capacità di assorbimento e possono essere utilizzate come base per aerosol anallergici e anche come sostituto del talco in cosmesi. Inoltre, questo tipo di amido, riduce la temperatura di gelatinizzazione e la resistività. L’insieme di queste caratteristiche conferiscono all’amido di amaranto ottime proprietà gelatinizzanti ed una buona stabilità congelamento/scongelamento molto apprezzata nell’industria alimentare ultimamente anche orientata per quella degli animali domestici.
L’assenza del glutine nei semi di amaranto e l’elevata digeribilità, ne consiglia l’impiego nell'alimentazione delle persone affette non solo da celiachia ma anche da problemi digestivi e intestinali, e utile nei bambini in fase di svezzamento, di convalescenti e di anziani; sono inoltre stati rilevati benefici nelle persone affette da artrite, diabete, gotta e reumatismi, oltre che nelle donne in gravidanza.
Qualche cenno merita anche l’amaranto da ortaggio consumato alla stessa stregua degli spinaci. Ha un valore alimentare molto alto per la ricchezza di proteine, vitamina C, carotene ed elementi minerali. Il consumo deve prevedere però l’allontanamento dell’acqua di cottura ricca di ossalati e di nitrati.

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I funghi e il microbiota, “organo dimenticato”

I primi funghi, apparsi sulla terra circa ottocento milioni di anni fa, sono divenuti estremamente abbondanti con una grandissima diversità che oggi è stimata in circa tre milioni di specie delle quali solo poco più di centomila circa sono state descritte, ma non manca chi pensa che il numero delle specie di funghi esistenti sulla terra possa essere cinquanta volte maggiore. I funghi sono stati a lungo utilizzati come alimento da animali e dall’uomo e come medicinali da quest’ultimo.

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L’agricoltura urbana e il vertical farming

La distribuzione dei prodotti agricoli freschi ha subito una forte variazione negli ultimi decenni e grazie a una logistica ottimizzata si è riusciti a collegare aree di produzione e mercati anche molto distanti tra loro. Le condizioni ambientali e i costi di produzione più bassi hanno portato alla delocalizzazione delle coltivazioni nelle aree più vocate indipendentemente dalla stagionalità.
L’emergenza sanitaria del Covid-19 ha messo in evidenza come la logistica, seppure ben organizzata, può diventare labile sulle lunghe distanze. A seguito di questo, la produzione locale è stata riconsiderata e sta assumendo una importanza strategica per garantire l’approvvigionamento dei prodotti freschi in caso di interruzioni della filiera distributiva.

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Trasformazione agroalimentare: «Industria gentile» e «obiettivo 25%» per il consumo di prodotti locali

Il futuro del cibo potrebbe essere come ce lo ha rappresentato il regista coreano e premio Oscar Bong Joon-ho nel film Snowpiercer: una barretta a base di alghe, zucchero e gelatina, ovvero quel minimo di nutrienti necessario a tenerci in vita. Secondo Jacques Attali si tratterebbe di uno scenario possibile, almeno per quanto riguarda il cibo dei poveri, standardizzato e processato sino a negare qualsiasi soddisfazione al palato, agli antipodi di quello riservato ai ricchi, che invece probabilmente sarà sano, variegato e dotato di sapori e profumi.
D’altra parte, nutrire un pianeta che presto sarà abitato da 10 miliardi di umani richiede di aumentare le rese e incrementare i livelli produttivi. Se questo è lo scenario dell’agricoltura, la trasformazione a valle potrebbe finire per essere gestita da poche multinazionali - i signori del cibo - interessate a ridurre i costi unitari e consegnare pochi prodotti standardizzati al mercato mondiale, tramite una distribuzione profondamente semplificata che non competerà più a livello di gamma ma soltanto di ubicazione del punto vendita. Questo almeno per le masse.
Andrà così? Non necessariamente. Possiamo ancora fare qualcosa per evitarlo.
I consumatori, ce lo dice l’Unione Europea, desiderano «cibi freschi, meno lavorati, provenienti da fonti sostenibili e da filiere più corte». Analizzando la composizione media dello scontrino di una spesa alimentare, queste aspirazioni si rivelano in buona parte «idealizzate». In Italia come all’estero finiscono nel carrello una quantità elevata di piatti pronti, cibo confezionato, conserve e snack. Dovendo necessariamente rinunciare al progetto di autoprodurre il proprio cibo, il consumatore trova oggi riscontro a questo bisogno di natura away from home: per esempio negli agriturismi con ristorazione a filiera corta, nei ristoranti iper-locali o al desco di chef stellati che curano direttamente il proprio orto.
In questo contesto, l’industria alimentare è ancora percepita come il principale responsabile della perdita di naturalezza degli alimenti, l’artefice del processare e dello standardizzare. Si dimentica troppo spesso che la trasformazione ha risolto la questione dell’igiene, perfezionato e ampliato i metodi di conservazione e contribuito a nutrire una popolazione mondiale passata dai 3 miliardi di persone del 1960 agli 8 miliardi del 2022, in cambio di una quota decrescente del loro reddito disponibile. L’industria alimentare italiana, comunque, si rispecchia poco nel modello «multinazionale»: le oltre 50.000 imprese attive nel nostro Paese hanno una dimensione media di 8 dipendenti.
In questo momento, con la transizione ecologica alle porte, con il Green Deal e la Strategia Farm to fork della Commissione Europea che premono sui principali snodi della filiera in nome della sostenibilità, dell’economia circolare, dell’impatto climatico 0, il nostro modo di produrre il cibo si confronta con un cambio di paradigma. Fondi consistenti saranno stanziati per la riconversione verde. Sulle modalità di questa transizione ancora si ragiona. Per l’Italia si tratta di un’occasione imperdibile di rafforzare anche e nel medesimo tempo il collegamento tra agricoltura, trasformazione, distribuzione e aspirazioni dei consumatori.

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L’agricoltura che produce cibo per gli astronauti

Professoressa Adamo, è di questi giorni la notizia che sono germogliati per la prima volta dei semi sul terreno lunare portato sulla Terra dagli astronauti di alcune missioni Apollo. Lo studio, finanziato dalla NASA, è stato pubblicato sulla rivista "Communication Biology" (https://www.nature.com/articles/s42003-022-03334-8).
Perché è importante condurre questo tipo di ricerche?

Coltivare piante superiori di interesse alimentare in ambienti extraterrestri utilizzando le risorse disponibili in situ, ed in particolare il suolo lunare e marziano, è un obiettivo fondamentale per rendere possibile e sostenibile in futuro l’esplorazione umana dello spazio. La produzione di cibo fresco in-situ garantirebbe, infatti, l’autonomia e la sopravvivenza degli astronauti nelle missioni di lungo termine. Tuttavia, il suolo “extraterrestre” è molto diverso dal suolo terrestre. In particolare, è completamente privo di materiale organico e quindi di elementi nutritivi essenziali alla vita delle piante quali azoto, fosforo e zolfo, e manca di una struttura capace di trattenere e contenere acqua e aria elementi indispensabili per lo sviluppo radicale. La preparazione di un substrato chimicamente e fisicamente fertile per la crescita di piante ad uso alimentare a partire da suolo, o più precisamente, da regolite lunare e marziana rappresenta pertanto una delle principali sfide della ricerca scientifica in campo spaziale.
La produzione di cibo fresco attraverso un approccio di utilizzo in-situ delle risorse è di fondamentale importanza per garantire l'autonomia e la sopravvivenza dell'equipaggio nelle missioni spaziali di lungo termine. L'uso della regolite marziana come suolo per la crescita delle piante sarebbe una pratica sostenibile per ottenere cibo, anche se il "suolo extraterrestre" è di gran lunga diverso dal suolo vitale e fertile che abbiamo sulla Terra.
All’interno di un sistema bio-rigenerativo di supporto alla vita (BLSS) extraterrestre, per trasformare la regolite (da intendersi come una roccia amminutata) in un substrato idoneo alla crescita delle piante si potrebbe aggiungere un materiale organico compostato derivante dai rifiuti dell'equipaggio e dagli scarti vegetali. Ciò consentirebbe di fornire nutrienti alle piante, assenti nella regolite, e di favorire la formazione della struttura del “suolo”, con la sua rete di pori, adatti ad ospitare acqua ed aria, elementi indispensabili per lo sviluppo radicale. Considerando che la regolite marziana non è disponibile sulla Terra, gli studi di ricerca spaziale vengono comunemente condotti su simulanti di regolite, che tendono a replicare le proprietà

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Ancora invasioni di cavallette in Sardegna

In questi primi caldi giorni della tarda primavera del 2022, la notizia di una perdurante, ormai quadriennale, invasione di cavallette nel centro della Sardegna rimbalza tra diversi, lontani e talvolta “insospettabili” mezzi d’informazione. Dalla media valle del Tirso, l’area più colpita dell’isola, giungono immagini e filmati impressionanti. Niente di nuovo in realtà, gli annali registrano “orde” di questi insetti dai tempi più remoti. “Con una periodicità assolutamente irregolare, ad intervalli di lustri, la specie [Dociostaurus maroccanus, il cosiddetto Grillastro crociato] si moltiplica in misura straordinaria e le orde di saltellanti e volanti voracissimi ortotteri invadono non soltanto i prati e i dossi dove sono nati ma anche le zone coltivate contermini migrando su vasti fronti in varie direzioni ed interessando superfici estesissime, costituendo fonti di perdite economiche ingenti e assillo di popolazioni e di autorità, sino a diventare problemi nazionali inquietanti, onerosi e complessi.” [Athos Goidanich, Enciclopedia Agraria Italiana: intorno al 1960].

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Strade “verdi”: futuro possibile?

Le strade sono la linfa vitale delle nostre comunità e il fondamento delle nostre economie urbane. Esse costituiscono oltre l'80% di tutto lo spazio pubblico in città e hanno il potenziale per promuovere attività di business, servire da spazio condiviso per i residenti, e di fornire un posto sicuro per la gente per passeggiare o andare in bicicletta. La vivacità della vita urbana richiede, tuttavia, un approccio progettuale sensibile al ruolo poliedrico che le strade svolgono nelle nostre città.

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Il trasferimento dell’innovazione attraverso le “demofarm”

Il trasferimento della innovazione rimane un elemento essenziale al fine di dare prospettive alle aziende agricole che, cogliendo le opportunità delle nuove tecnologie e della gestione dei dati, possono aggiornarsi e aumentare la loro competitività.
Lo sviluppo della innovazione nel settore agricolo, tuttavia, non avviene attraverso un semplice trasferimento di “tecniche”, ma attraverso l’applicazione di un modello che modifica anche il sistema gestionale e si occupa di pianificazione del lavoro, interessando in modo integrato sia le tecniche di produzione, ma anche il rapporto con la Pubblica Amministrazione nonché il marketing e il ciclo delle vendite.
Diversi studi, supportati anche da specifici progetti europei, hanno accertato che la modalità con cui si trasferisce l’innovazione nel settore agricolo è cambiata nel tempo e ha sempre più bisogno di linguaggi nuovi che sappiano catturare l’attenzione dell’imprenditore agricolo, ma soprattutto stimolare la sua capacità imprenditoriale. Dalle esperienze di chi si occupa di innovazione in agricoltura sembra non più sufficiente mostrare una attrezzatura o una tecnica, ma occorre proporre un modello, un sistema innovativo applicato e funzionante. L’innovazione, per essere applicata, deve essere compresa nel suo utilizzo e conosciuta nei suoi costi da parte dell’imprenditore agricolo che può così valutare la sostenibilità economica e la sua utilità, in un nuovo modello gestionale simulato all’interno della propria azienda.
Alcune aziende agricole già lo fanno o hanno le potenzialità per svolgere questo ruolo di demofarm, perché dotate di vocazione e capacità organizzativa. Sono in grado infatti di dimostrare soluzioni, rivolgendosi agli imprenditori, non solo con prove sperimentali, ma anche con modelli gestionali innovativi, anche di pieno campo. Si evidenzia poi l’efficacia dell’apprendimento tra colleghi (peer to peer learning) che amplifica la sua ricaduta positiva specialmente nelle aziende agricole demofarm che diventano così un luogo di mediazione tra la ricerca e il tessuto imprenditoriale agricolo, favorendo una applicazione effettiva delle migliori tecniche e quindi una crescita innovativa del settore. Le demofarm sono un luogo, ma anche un metodo di analisi, dove confrontarsi in modo semplice e diretto su aspetti concreti, stimolando l’arricchimento innovativo attraverso anche la simulazione di nuovo modelli operativi che devono adattarsi ai diversi contesti e comparti produttivi; luoghi che possono contribuire a ridurre il senso di diffidenza - spesso ancora diffuso negli agricoltori - verso le nuove tecnologie.

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Terreni più resilienti e produttivi con il biochar

Lunedì 20 giugno prossimo l’Accademia dei Georgofili di Firenze ospiterà un incontro per approfondire le basi scientifiche e le prospettive economiche dell’uso del biochar e di altre azioni del comparto agricolo per riportare carbonio nel suolo. 

Prof. Chiaramonti, perché è importante riportare il carbonio nei suoli?
Il Carbonio è un elemento fondamentale per la salute dei suoli e per la vita in generale. Purtroppo, uno degli effetti del cambiamento climatico è proprio quello di impoverire i terreni di questo prezioso elemento, in particolare l'area del Mediterraneo e del Sud Europa. E'  dunque essenziale mettere in atto tutte le misure in grado di riportare Carbonio e sostanza organica là dove dovrebbe essere presente, in particolare nei primi 30 cm del terreno, dove può svolgere una serie di funzioni importanti. Ad esempio, aumentare la capacità di ritenzione idrica del terreno, consentire il lento rilascio dei nutrienti, ed in generale migliorare la struttura creando condizioni favorevoli alla vita microbiologica. Ovviamente, il biochar deve essere prodotto in modo corretto e controllato per garantire le caratteristiche desiderate (e regolate da norme e standard specifici).

Che cos' è in parole semplici il biochar? Quali tecnologie sono attualmente disponibili per poterlo utilizzare?
Il biochar è un prodotto carbonioso ottenuto tramite il trattamento termico della biomassa lignocellulosica in condizioni di assenza totale (o talvolta presenza parziale) di ossigeno: questo processo si chiama pirolisi o carbonizzazione. La struttura del biochar è porosa, con pori di dimensione, e quindi volume e superficie, variabile a seconda della materia prima utilizzata e delle condizioni di processo. Il biochar "stabilizza" il Carbonio: tecnicamente si usa spesso il termine "recalcitrante" proprio per indicare la sua elevata resistenza alla degradazione nel terreno. Assieme a questo prodotto solido il processo genera un gas rinnovabile, il pyrogas, che può essere utilizzato per fornire energia al processo stesso, oppure essere valorizzato in vario modo con processi più complessi, sia per la parte incondensabile che per quella condensabile.
Le tecnologie di pirolisi, normalmente operanti a temperature comprese tra i 400 ed i 600 °C negli impianti industriali, sono ormai mature e disponibili in varie configurazioni reattoristiche, dai cosiddetti letti fissi ai reattori a forno rotante ed altri. Ciascuna tipologia di impianto presenta caratteristiche diverse, da considerare alla luce della tipologia di biomassa immessa in alimentazione e della costanza delle caratteristiche chimico-fisiche.
ll biochar può essere prodotto anche in impianti di gassificazione, nei quali comunque il prodotto primario è un gas destinato alla generazione di energia elettrica e/o cogenerazione. Le caratteristiche del biochar così ottenuto sono anche leggermente diverse rispetto a quello ottenuto in pirolisi.

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Inaugurazione dell’anno accademico UNASA

Nella Lectio Magistralis dell’inaugurazione su “Il paradigma della produttività in agricoltura e il rischio di gettare il bambino con l’acqua sporca”, il professor Dario Frisio ha sottolineato che per fare fronte alla crescente domanda alimentare, nell’impossibilità di mettere a coltura nuove terre, se non disboscando, sia indispensabile ricorrere all’intensificazione produttiva attraverso il ricorso alle più moderne tecnologie, da quelle dell’agricoltura di precisione alle Tecniche di Evoluzione Assistita per il miglioramento genetico.

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L’agricoltura dei microappezzamenti

In un articolo apparso su “La Repubblica” il 30 aprile u.s., si affermava che l’1% delle imprese agricole sfrutta il 70% della superficie coltivabile. Nell’articolo veniva citato un rapporto dell’ONU secondo il quale l'80% delle aziende agricole nel mondo lavora su microappezzamenti che non superano i 2 ettari. L’articolo in questione sottolineava anche che la proprietà in poche mani però non sta portando a un utilizzo razionale delle risorse del pianeta Terra.

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I “bio-distretti”, un’opportunità per i territori

La Commissione europea ha definito per l’Unione un piano d’azione per l’agricoltura biologica attraverso cui, nell’ambito della strategia Farm to Fork del Green Deal, dovrà essere raggiunto l’obiettivo del 25% dei terreni agricoli coltivati con il sistema biologico entro il 2030, contemporaneamente ad un aumento significativo dell’acquacoltura biologica; in tale ambito l’azione 14 del piano è volta ad incoraggiare gli Stati membri a sostenere lo sviluppo dei “Bio-Distretti”.
Cosa si intende per Bio-Distretto? Un Bio-Distretto è un’area geografica in cui agricoltori, cittadini, operatori turistici, associazioni ed Enti pubblici stipulano un accordo per la gestione sostenibile delle risorse locali, basata sulla produzione e il consumo di prodotti biologici (filiera corta, gruppi di acquisto, mense biologiche negli uffici pubblici e nelle scuole). Nei Bio-Distretti, la promozione del prodotto biologico è indissolubilmente legata alla valorizzazione del territorio e delle sue peculiarità affinché possa esserne realizzato tutto il potenziale economico, sociale e culturale.
Secondo la mappa dei bio-distretti europei, creata e recentemente aggiornata da IN.N.E.R.- International Network of Eco-Regions -, in Italia i distretti biologici sono attualmente 42 (di cui alcuni in via di costituzione). L’ultimo realizzato in ordine di tempo (dicembre 2021) è il Distretto Biologico della Regione Marche, creato dall’amministrazione regionale e che coinvolge tutto il territorio marchigiano
La loro creazione si è dimostrata efficace nell’integrare l’agricoltura biologica e le attività locali, per migliorare il turismo locale anche nelle aree a minor vocazione turistica, a rafforzare la lavorazione locale dei prodotti, favorire il mantenimento e l’incremento di realtà produttive e di trasformazione anche di piccola dimensione economica, promuovere circuiti commerciali corti e la vitalità rurale, concorrere ad evitare lo spopolamento delle campagne, con influenze positive sullo stile di vita, sull’alimentazione, sull’uomo e sulla natura, con grande apprezzamento da parte dei consumatori, dare un’identità specifica a un’area geografica.
È di tutta evidenza l’attrattiva che può avere un territorio in grado di presentarsi come “pulito” e in grado di offrire produzione agroalimentari tipiche, non rinvenibili altrove, produzioni che sono in grado di associare alla qualità organolettica l’immagine di una alimentazione più sana.
La creazione e promozione dei distretti biologici è sostenuta dal ‘Fondo per l’agricoltura biologica’, una legge del 2019 che finanzia misure per favorire forme di produzione agricola a ridotto impatto ambientale. Il Fondo ha avuto una dotazione di 5 milioni di euro annui a partire dal 2020, a cui si sono aggiunti ulteriori 15 milioni con un accantonamento aggiuntivo nel 2021. Il 30% delle risorse finanziarie del Fondo è dedicato ai bio-distretti, e il Ministero delle Politiche Agricole (Mipaaf) sta ora attuando le procedure per l’emanazione dei bandi pubblici per l’assegnazione dei fondi previsti.
E’ molto importante, per la loro realizzazione ed il loro successo, il ruolo delle amministrazioni locali che, attraverso le loro scelte, sono in grado di influenzare le abitudini dei consumatori e dei mercati locali.

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L’afide che minaccia i cipressi di Bolgheri

Questa non è la prima volta che i cipressi di Bolgheri si ammalano. Qual è la causa e come si manifesta la malattia?
Va ricordato in primo luogo che in questo caso non si tratta di una malattia, come ad esempio per le infezioni del Cancro del Cipresso il cui agente patogeno è un fungo, ma bensì degli attacchi di un Insetto l’Afide del Cipresso. Detto questo si evidenzia che gli arrossamenti e disseccamenti di porzioni di chioma sono determinati da incrementi improvvisi delle popolazioni dell’Afide le cui popolazioni possono in breve tempo aumentare in modo esplosivo in quanto una sola femmina può dare origine in un anno a 2 milioni di miliardi di Afidi capaci di occupare 6 miliardi di m2 ovvero una superficie di 60.000 ha, pari a circa 6 volte l’intero Comune di Firenze che complessivamente occupa poco più di 10.000 ha.

Quali sono i rimedi possibili? E' davvero necessario abbattere e rimuovere le piante malate, danneggiando un paesaggio famoso nel mondo? 
Anche nel caso di infestazioni anche gravi di Afide del Cipresso, con estesi disseccamenti di porzioni delle chiome della Conifera, di norma non è saggio procedere subito con abbattimenti in quanto solo in limitate occasioni gli attacchi di questo Insetto compromettono del tutto la vitalità delle piante colpite. Può essere invece utile come prima cosa l’immediato lavaggio delle chiome con acqua addizionata di saponi per ripulirle dalle fumaggini che si sviluppano sulla melata prodotta dall’Afide e ricoprono le parti verdi ostacolando respirazione e fotosintesi.

Gli interventi necessari sono molto costosi? E' possibile prevenire questa avversità prima di doverla curare con interventi drastici?
Come spesso succede anche in altri settori prevenire è sempre meglio che intervenire tardivamente, quando ormai anche i non specialisti possono rendersi conto dei danni guardando i cipressi con chiome più o meno arrossate a chiazze. Quello che è importante sottolineare è che sarebbe necessario un monitoraggio periodico, condotto annualmente da personale addestrato e competente, per rilevare lo sviluppo delle popolazioni di Afide del Cipresso e la loro entrata in fase di supermoltiplicazione: questo permetterebbe di fare per tempo interventi mirati di costo contenuto, con prodotti a basso impatto ambientale, prima del verificarsi di danni gravi, salvaguardando in modo corretto ed efficace questo patrimonio naturale e storico.

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Sedici anni dopo la messa al bando degli antibiotici in alimentazione animale

Sedici anni dopo la messa al bando degli antibiotici in alimentazione animale in Europa, l’argomento continua ad essere globalmente attuale. L’uso troppo “disinvolto” di queste sostanze come promotori di crescita ha causato il deleterio fenomeno della resistenza microbica agli antibiotici (AMR), con la conseguenza che molti microrganismi patogeni, anche per l’uomo, sono divenuti resistenti alle terapie antimicrobiche.

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La certificazione tutela produttori e consumatori

Dottor Liberatore, ci può raccontare innanzitutto brevemente come è nata Valoritalia?
Valoritalia è stata costituita nel 2009 su iniziativa di Federdoc, la federazione nazionale dei consorzi di tutela vitivinicoli, e di CSQA uno dei più importanti organismi di certificazione in ambito agroalimentare in Italia, attiva prevalentemente in settori diversi dal vino. Il know how dei consorzi, insieme all’expertise di CSQA ci hanno permesso di diventare in pochi anni la società di certificazione leader nel settore enologico. Oggi certifichiamo i vini di 216 denominazioni di origine italiane che nel loro insieme danno vita a una produzione annua a 1,7 miliardi di bottiglie, pari a circa il 60% di tutta la produzione italiana dei vini di qualità e con un fatturato di 9,4 miliardi di euro. Siamo certi che il modello di certificazione italiano, soprattutto nell’ambito vitivinicolo, sia quello che garantisce meglio il consumatore e le aziende. La certezza di rappresentare un esempio per gli altri Paesi ci sta facendo riflettere da tempo su un possibile salto nel panorama internazionale. Per perseguire questa finalità, contiamo sul supporto di , DNV AL, uno degli organismi di controllo più importanti al mondo, con sedi in tutti i continenti e quartier generale in Norvegia, che da due anni è entrato nella nostra compagine societaria.
Il nostro percorso di crescita è solo all’inizio!

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Suolo: come invertire la rotta verso il degrado?

Dottor Costantini, il recente rapporto Onu “Global Land Outlook 2” sull’uso del suolo, lancia un chiaro allarme e sottolinea il ruolo, tutt’altro che positivo, del sistema della produzione alimentare sul degrado delle terre. Ad oggi, l’uomo avrebbe alterato il 70% del suolo su cui ha messo piede e ne avrebbe degradato fino al 40%, in tanti modi: la deforestazione, l’agricoltura intensiva, gli incendi, il consumo di suolo, l’inquinamento chimico del suolo, le guerre, la costruzione di infrastrutture. Siamo veramente a un punto di non ritorno?
Certamente se facciamo una valutazione globale e facciamo riferimento alla fertilità e allo stato di salute dei suoli coltivati in riferimento alle condizioni naturali, non antropizzate, la situazione è allarmante. Le attività dell’uomo hanno interessato circa il 40% della superficie terrestre e quasi il 92% delle praterie/steppe naturali è stato destinato all'uso umano, compresi i pascoli e i terreni coltivati. Attualmente si hanno 1.426 milioni di ha di terreno coltivato, 165 di colture permanenti e 3.275 di pascoli e pascoli. Solo per avere un’idea, si stima che con la messa a coltura delle praterie naturali si sia perso circa il 40% della loro dotazione di carbonio organico, elemento essenziale della fertilità del suolo.
Però vorrei ricordare che il processo di degradazione della fertilità naturale del suolo è complesso e va inquadrato in un contesto storico e geografico. Vi sono marcate differenze tra le aree del mondo da più tempo coltivate e quelle che solo più di recente sono state messe a coltura. Nelle terre di più antica coltivazione, in particolare, l’impatto dell’uomo sul suolo non è stato uniforme nel tempo e nello spazio, ma ha visto fasi di intensa degradazione alternate a fasi di recupero e anche di miglioramento della fertilità. La prima crisi ambientale si è avuta con l’avvento dell’era dei metalli, circa 5000 anni fa. Con l’aiuto dei metalli l’uomo ha compiuto estesi disboscamenti per la messa a coltura di suoli anche molto fragili. L’avvento dei metalli ha anche aumentato la diffusione degli incendi e delle guerre, con le conseguenti ampie devastazioni. Ne sono conseguiti intensi fenomeni di erosione idrica, ma anche eolica, aggravati in concomitanza di periodi o eventi climatici aridi. Intere civiltà sono scomparse, come l’impero accadico in Medio Oriente. Testimonianze di tali processi di erosione e deposizione di coltri eoliche sono diffuse e documentate anche in Italia. L’agricoltore però ha reagito. L’inizio della diffusione dei terrazzamenti in tutto il mondo si è avuta proprio in quel periodo storico, come risposta alle evidenti perdite di suolo e di fertilità dei campi coltivati in pendio.
Fasi alternate di degradazione e di recupero di fertilità del suolo si sono avute anche successivamente, in particolare in epoca classica, nel medioevo, e intorno al piccolo glaciale (1600-1800) nell’emisfero boreale. Il recupero di fertilità è stato ottenuto attraverso tutta una serie di pratiche agronomiche che, come è noto, anche studiosi dell’Accademia dei Georgofili hanno contribuito a diffondere, non solo in Italia.
La situazione è profondamente cambiata a partire dalla metà del secolo scorso, con la diffusione di una agricoltura sempre più impattante sul suolo, basata sull’uso di macchinari sempre più pesanti, sull’introduzione di sistemi colturali sempre più intensivi, basati su poche specie e varietà coltivate, spesso accompagnati dall’abuso di fertilizzanti di sintesi e di pesticidi e su un eccessivo ricorso all’irrigazione, non di rado con uso di acque salmastre. L’impatto di questo modello di sfruttamento intensivo del suolo è stato ed è particolarmente grave nei suoli di limitata fertilità naturale, con conseguenze ambientali, economiche e sociali, anche gravissime. La degradazione più grave porta alla desertificazione, che purtroppo si sta diffondendo particolarmente proprio nelle aree di più recente messa a coltura, a causa dell’uso sconsiderato (o disperato) dei suoli più fragili. Adesso ci troviamo quindi in un’altra fase cruciale, dove c’è bisogno di una reazione collettiva e di un cambiamento di modello di riferimento.

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