Per rilanciare il settore pesche/nettarine

di Lorenzo Frassoldati*
  • 18 October 2017
In un editoriale sulla “Rivista di Frutticoltura” dello scorso settembre il prof. Silviero Sansavini fa il punto sulla crisi del settore pesche/nettarine che ha colpito duramente il mondo produttivo sia del Nord che del Sud nell’estate 2017. Il titolo “Senza aggregazione dell’offerta e senza alta qualità la peschicoltura smobilita?” dice subito dove va a parare il pensiero del Prof, anche se personalmente avrei tolto il punto interrogativo. Sull’argomento ci siamo esercitati anche noi del Corriere Ortofrutticolo, con vari commenti a firma del sottoscritto, e dei nostri valenti collaboratori Duccio Caccioni, Claudio Scalise e Corrado Giacomini. Sansavini è uno studioso/scienziato autorevole e stimato della nostra frutticoltura e vale la pena di seguire il suo ragionamento.
“Evidentemente scrive il Prof - l’offerta pesche, gestita frammentariamente da cooperative/consorzi e da singoli gruppi di produttori, in aperta concorrenza fra loro, non è riuscita a fronteggiare un mercato aperto al prodotto estero e senza che le pregresse deboli misure messe in atto dall’UE abbiano avuto alcun effetto (ritiri autorizzati in misura fra l’altro assai inferiore a quelli della Spagna). Nel pesco, purtroppo, non si è ancora formata un’aggregazione dell’offerta sufficiente per incidere sui prezzi. Mancano le iniziative (es. brand fiduciari e territoriali), impostesi sul mercato a favore di mele, pere, kiwi, anche per poter sviluppare una politica dei prezzi”.
La Romagna è l’area più colpita dai prezzi bassi: ”tanto che, con molto ritardo (sono passati quasi venti anni dall’IGP concessa nel 1998 alla “Pesca e nettarina di Romagna”) ha chiesto il riconoscimento del Consorzio di Tutela costituito fin dal 2002, ai fini del controllo delle attività; Consorzio che copre cinque province, da Bologna a Rimini, ma per una superficie certificata di appena 200 ettari (non è un errore di stampa!)”.
Sansavini dà conto dei generosi tentativi messi in campo (dall’Oi, dal Cso, dal Tavolo romagnolo…) durante l’estate con esiti quasi impalpabili. “L’annunciato e speranzoso “tavolo ortofrutticolo nazionale” è invece ancora latitante. Il Ministero lo convocherà solo a settembre, dopo le ferie! È questo che vogliamo? Per aprire la strada ad un’altra drastica riduzione delle superfici? Non sarebbe meglio intraprendere prima auspicabili misure strutturali, a cominciare dalla sottrazione dai mercati delle pesche di scarso valore, come le pezzature D (sottomisura) e poi anche delle C? Mancano certamente le condizioni per assumere, a livello nazionale, decisioni erga omnes, perché la produzione delle APO-OP non raggiunge ancora il 50% di quella nazionale e poi dovrebbe andare oltre; l’“aggregazione”, dunque, è ancora insufficiente, anche perché viene finora intesa come “assorbimento di gruppi” (coop, ecc.) minori da parte di quelli maggiori, mentre dovrebbero essere questi ultimi a mettersi insieme per iniziative comuni”.
Ma sono solo queste le strade da seguire per riportare a dignità la coltura del pesco?, si chiede il Prof. “Per risollevare anche il livello qualitativo del prodotto, che forse non è più sufficientemente curato come in passato? Non mancano certo le conoscenze tecniche, ma chi ripaga i produttori dei maggiori oneri e costi per ottenere produzioni di qualità eccellenti? Non vorremmo che una certa e generale sfiducia nel pesco prendesse il sopravvento. Per qualcuno la coltura del pesco è già in via di abbandono, soprattutto in alcune zone tipiche del Nord, proprio laddove si dovrebbe invece fare di tutto per difendere le posizioni di mercato. I paesi concorrenti sono pronti ad occupare gli spazi lasciati liberi dall’Italia”.
Conclusioni: “Questa è stata dunque un’altra annata disastrosa, nella quale l’Italia ha perso ulteriormente peso sui mercati europei che contano e pagano bene (i discount tedeschi vendono le pesche italiane ad appena 0,50 € al cestino!). I mercati, comunque vada, si salveranno con l’importazione, e così pure i consumatori avranno pesche straniere in maggiore quantità e magari di migliore qualità (si veda la capillare e massiccia penetrazione delle pesche spagnole, soprattutto quelle piatte, in tutti i nostri mercati); ma, se così sarà, il nostro settore peschicolo tradizionale sarà costretto ad abdicare; i coltivatori dovranno cercare altre fonti di reddito. Prima di finire c’è da chiedersi anche: gli organismi politici sono attenti alle conseguenze di questa possibile smobilitazione? Una volta si sentivano forti accenti (a parole) sulla necessità della programmazione degli impianti e del censimento catastale, sugli incentivi UE ancora oggi disponibili (affidati per il rinnovo dei frutteti ai gruppi coop attraverso l’OCM), oppure sulla tutela della produzione integrata e dei marchi riconosciuti dall’Europa. Si sono fatte molte chiacchiere sugli accordi stipulati con gli altri paesi mediterranei attraverso l’Areflh per interventi comuni e coordinati, ma non sembra che ciò sia avvenuto. In futuro si salverà, forse, solo la coltura biologica del pesco, come sostiene qualche esperto? Sapremo risvegliarci da questo torpore e fare qualcosa che conti oppure “ognuno per sé e Dio per tutti?”.
Sto dando conto del ragionamento di Sansavini perché è in linea con le argomentazioni qui svolte da Caccioni, Scalise e Giacomini. Come dire, ragionando senza paraocchi, con realismo e fuori dai luoghi comuni si arriva tutti alle stesse conclusioni. Servono interventi strutturali da concordare come sistema Italia;  serve un Piano di azione concordato tra Ministero, regioni e grandi player del settore in sintonia con azioni da svolgere a Bruxelles anche attraverso la lobby dell’Areflh; serve più aggregazione ma quella ‘buona’, quella che punta a efficienza e competitività, non quella ‘prendi i soldi e scappa’. Aggregazioni produttive o anche solo commerciali (tipo Opera o Origine Group). Servono incentivi e fondi per ristrutturare i frutteti, per fare più qualità. Oggi le imprese hanno raschiato il fondo del barile (chi investe più sulle pesche? La tendenza è a spiantare gli impianti). Serve un tavolo, un luogo dove concordare progetti e  iniziative con la Gdo, almeno con quella che si dice più attenta al made in Italy. L’annunciato Tavolo nazionale ortofrutta (siamo già a ottobre) batterà un colpo?
Però, non illudiamoci, serve un progetto vero che nasca dal settore, una idea-guida che ridia slancio al mondo produttivo e motivazioni al consumatore, altrimenti saremo sempre qui a piangerci addosso e chiedere l’elemosina dei ritiri. Se il focus su cui lavorare per togliere il  settore dalla palude dell’anonimato e della commodity è la riconversione all’alta qualità e al biologico, il sistema lavori su quello. Magari perderemo altre superfici, ma quello che resta avrà un futuro.

*Direttore del Corriere Ortofrutticolo