La lezione del caso Grom/Unilever

di Dario Casati
  • 07 October 2015
Unilever,  il più grande gruppo alimentare e il maggior produttore di gelati al mondo, ha acquistato in Italia Grom, una piccola azienda molto interessante e in rapida crescita. Con un fatturato attorno ai 27 milioni di euro, circa 600 dipendenti e oltre 60 negozi di proprietà in Italia e all’estero l’azienda, nata da un’idea dei due soci fondatori nel 2003, si è conquistata  uno spazio particolare nel mercato nazionale con un’immagine vincente. L’idea di fondo è la produzione di gelati “come quelli di una volta”, la riscoperta della produzione artigianale, l’impiego di materie prime naturali e in parte biologiche da quando Grom ha comperato un’azienda frutticola. 
I fondatori sono poi stati affiancati, con quote minori, da soci esteri e da Illy, con il 5%, sino alla recente cessione a Unilever. La notorietà del marchio Grom  e il passaggio ad una multinazionale come Unilever hanno attivato il solito coro di chi lamenta la (s)vendita delle imprese italiane, salvo poi elogiare il percorso inverso delle nostre multinazionali alimentari come Barilla, Ferrero o Campari. La vicenda Grom si presta ad alcune pacate considerazioni.
Quanto è accaduto è praticamente la regola per gli spin off che hanno successo e che sono circa il 5% di quelli costituiti con tante speranze a partire dai risultati della ricerca o da idee imprenditoriali elaborate da giovani che, come i soci di Grom, compiono prima e meglio di altri, una scelta particolarmente promettente. Dunque, la vendita a Unilever in questo senso è il sigillo di un successo imprenditoriale. 
La cessione di Grom non è un caso unico e può essere accostata ad altre due, la prima riguarda un’impresa alimentare italiana per molti aspetti simile, le Fattorie Scaldasole, la seconda un’impresa che negli Usa produce gelati, Ben & Jerry’s. In entrambi i casi l’acquirente è una multinazionale che, nel secondo esempio, è la stessa Unilever. 
Scaldasole, fondata agli inizi degli anni ’80, è nata dalle idee di due giovani ed ha imboccato  la strada della produzione di alimenti biologici, all’insegna della naturalezza e della sicurezza alimentare, insistendo su valori che hanno dimostrato forte presa sui consumatori. Al successo ha fatto seguito il dilemma delle scelte per la crescita ed è stata ceduta nel 1995 al gruppo Heinz che, nel 2005, insieme a Plasmon l’ha venduta al gruppo francese Andros. L’antica vocazione è rimasta, ma certamente i cambiamenti nell’assetto proprietario hanno creato qualche problema di immagine.
Ben & Jerry’s nacque nel 1978 dall’intuizione di due amici che volevano un’impresa che producesse gelati buoni, naturali, “come una volta” e, in più, avesse una visione sociale e compisse concrete azioni caritatevoli. Unilever, che nel tempo era diventata il maggior produttore di gelati negli Usa, nel 2000 la comperò per affiancare alla sua immagine “industriale” una più vicina ai valori di Ben & Jerry’s, impegnandosi ad una gestione indipendente e garantita da un apposito comitato nel solco delle scelte dei due fondatori.  
I tre casi presentano caratteri comuni: giovani imprese di successo, messaggi chiari in linea con tendenze emergenti, richiamo ai prodotti agricoli naturali, meglio se biologici, metodi artigianali di produzione. Poi l’impatto con la realtà: il successo porta alla crescita, serve una dimensione critica per il mercato, o si raggiunge o si passa la mano. Ecco entrare in gioco i grandi protagonisti dell’alimentare mondiale. Il loro interesse è chiaro: acquisire marchi già affermati come “alternativi” al loro modo di produzione per diversificare l’offerta e ampliare il mercato cogliendone tutte le sfumature.
La logica economica spinge in questa direzione, se non sai innovare non ti resta altro che comperare chi lo sa fare. Dal canto loro le imprese acquisite, al momento della cessione cominciavano a manifestare difficoltà a proseguire il loro cammino indipendente durato, per tutte, da uno a due decenni.
La lezione è semplice. Il mercato è duro, ma crea le opportunità e offre lo spazio per crescere. Non ha senso lamentarsi della perduta italianità o delle multinazionali in agguato e nemmeno rifugiarsi nei sogni irrealizzabili in concreto dei mercati locali, del km zero e delle nicchie di mercato interessanti, ma poi non tanto remunerative. Le vicende narrate sono la prova evidente che un’impresa non può sopravvivere se si sottrae alle logiche di mercato che sono immutabili, anche quando riguardano prodotti e circuiti in apparenza alternativi. 
Insomma, il Cavaliere Bianco esiste, ma quando esce dal libro dei sogni deve fare i conti con la realtà.   

The lesson of the Grom/Unilever case

Unilever, the largest food group and ice-cream producer in the world, has bought a small but very interesting company in Italy, the rapidly growing Grom. The acquisition of Grom is not unique and can be compared to two other cases, the first concerning the Italian food company Fattorie Scaldasole, which is similar in many respects, and the second Ben & Jerry’s, a company that produces ice-cream in the USA. In both cases, the buyer has been a multinational company that, in the second example, is again Unilever. The three cases have characteristics in common: young successful businesses; clear messages in line with emerging trends; appeal to natural, preferably organic agricultural products, and artisanal production methods. Then reality hits: success leads to growth, critical mass is needed for the market, which is achieved or the buck is passed. Then big international players in the food industry come into play, with a clear-cut interest, buying already famous brands as “alternatives” to their own products in order to diversify their product lines and expand their market share covering all bases. The lesson is simple. The market is tough but it creates opportunities and offers room for growth. The events we have reported are clear proof that a company cannot survive if it shirks the market’s immutable demands even when they concern apparently alternative products and routes.